La politica che non vuole l’alternanza ci ha regalato il populismo antipolitico dei 5 Stelle (il mio spiegone)

E’ davvero impossibile conferire ai cittadini il potere di stabilire chi li deve governare per una legislatura, preparandosi lo schieramento opposto a succedere alla tornata successiva? Perchè in Italia non è mai stata possibile la democrazia dell’alternanza e quindi governi stabili?

A queste due domande provo a rispondere con un lungo excursus storico per rinfrescare la memoria a tutti gli smemorati che della politica ricordano solo quello che è successo poche ore fa.

Nel nostro Paese ci siamo ormai abituati all’idea che di fatto tutti possono governare con tutti, che le maggioranze si facciano in Parlamento. Verso il sistema maggioritario, come testimonia la vicenda della legge maggioritaria (non a caso disprezzata come “legge truffa”) con cui si svolsero le elezioni del 1953, si ha un rifiuto istintivo. Purtroppo, insieme all’avversione per ogni possibile sistema elettorale maggioritario, la democrazia italiana non sembra neppure apprezzare il semplice principio di maggioranza, avendo sempre esaltato forme di consociativismo, le «convergenze parallele», le «larghe intese», sino al compromesso più o meno storico che fosse. Insomma, la tendenza è quella di governare di fatto tutti insieme per cui anche nella presente legislatura un governo di unità nazionale ha fatto seguito ad un governo giallo-rosso che aveva sostituito quello giallo-verde. Il popolo vota ma poi in parlamento i suoi rappresentanti si accordano liberamente senza vincolo di mandato e tutto questo sembra voluto, si dice, nientedimeno che dalla Costituzione. L’instabilità dei governi e una democrazia rappresentativa sganciata dalla volontà della maggioranza appaiono sempre di più come la causa di governi e amministrazioni non in grado di risolvere in maniera efficacia e risolutiva problemi antichi e nuovi.

Il 27 maggio 2018 Di Maio annunciava l’intenzione di chiedere l’impeachment nei confronti del presidente della Repubblica facendo riferimento all’articolo 90 della Costituzione. «In Italia c’è un problema di democrazia», spiegava Di Maio. «Non ci è stato permesso di fare il governo, eppure rappresentiamo circa il 60% dei voti, siamo i vincitori delle elezioni. Eravamo pronti a governare e ci è stato detto no. Sono molto arrabbiato». «Il problema è che le agenzie di rating erano preoccupate per un uomo che andava a fare il ministro dell’Economia? Allora diciamocelo chiaramente che è inutile andare a votare e che decidono sempre le solite lobby. È un livello di scontro istituzionale mai visto. E il punto non è Savona: il punto è di capire se l’Italia è sovrana o no».

«In questo Paese puoi essere un criminale condannato, un condannato per frode fiscale, puoi essere Alfano, puoi avere fatto reati contro la pubblica amministrazione, puoi essere una persona sotto indagine per corruzione e il ministro lo puoi fare», continua Di Maio, «ma se hai criticato l’Europa non puoi permetterti neanche di fare il ministro dell’Economia in Italia. Ma non finisce qui».

Vedete, è sempre tirata in ballo la DEMOCRAZIA. Tre anni fa (eppure sembra che sia passato mezzo secolo) l’attuale ministro degli Esteri attaccava il mite Sergio Mattarella senza mezze misure. Era lo stesso grillino che nel 2019 sosteneva: «Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi ». Luigi Di Maio era volato a Parigi insieme allo scudiero Alessandro Di Battista per incontrare Cristophe Chalençon, uno dei leader dei gilet gialli: il movimento di protesta con cui i 5 Stelle sentivano di avere molti punti programmatici in comune.

In questa Italia SMEMORATA questa legislatura cominciata nel 2018 con il “primo governo interamente populista dell’Europa occidentale” (definizione del Washington Post) e con l’assalto dei vincitori delle elezioni al capo dello Stato, in nome della lotta contro l’euro e le tecnocrazie globaliste, si avvia a concludersi con un governo guidato dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi, sostenuto da una maggioranza di unità nazionale concordemente impegnata sul piano di investimenti e riforme concordato con Bruxelles. 

E oggi il Salvini che nel 2018 minacciava di portarci fuori dall’euro e aveva fatto del ministero dell’Interno la base di un’attività di propaganda aggressiva e xenofoba, propone di eleggere Draghi direttamente al Quirinale affinchè gli liberi il posto e si vada a votare.

Il partito grillino più votato alle elezioni del 2018 (al quale Zingaretti & Bettini, ma ora anche Letta, hanno giurato eterno amore, pur di fronteggiare Salvini) si  trastulla con le carte bollate, con Davide Casaleggio e l’Associazione Rousseau, nella contesa su titolarità, trasparenza e correttezza della gestione dei dati degli iscritti.  

Di certo, ha scritto Luciano Capone, il Movimento 5 stelle si trova ora in una situazione unica al mondo. Quella di “un partito che non è in grado di eleggere i propri vertici perché non sa chi sono i propri iscritti”.

Tanti autorevoli politici e intellettuali, i Bersani & C., in questi anni sono stati capaci di prendere sul serio persino la pericolosa pagliacciata del “superamento della democrazia rappresentativa”, e di accreditare la piattaforma del signore che adesso gli stessi grillini vogliono portare in tribunale. Ma essendo il Movimento 5 stelle ancora il primo partito in parlamento, molti dei politici e degli intellettuali di cui sopra (da Franceschini a Veltroni e Prodi) ambiscono a quei voti per salire al Quirinale.

Il confronto Dibba-Bersani andato in onda da Formigli il 20 maggio andrà conservato ai posteri come duetto da commedia romantica, tra campioni del populismo tra la via Emilia e il trash. Affettuosità e incongruenze del grillino che voterebbe il leader di Articolo Uno alla presidenza della Repubblica, ma intanto fa un gran casino con citazioni da Google e pose da rivoluzionario senza nè arte nè parte.

Che cosa sta succedendo, allora? Lo ha spiegato bene Francesco Cundari, da me già citato, su il Foglio (23/5/21) : in Italia il populismo antipolitico è maggioritario da decenni, da molto prima dell’arrivo dei Cinque stelle, e non scomparirà con loro.

Vediamo allora, seguendo le indicazioni di Cundari, di riportare alla memoria questi ultimi quarant’anni in cui quasi tutti i leader politici,
nel momento in cui intendevano arrivare al potere, hanno surfeggiato sull’onda dell’antipolitica. Molto prima dei Cinque stelle, molto prima delle stesse campagne contro “la casta” condotte da Stella e Rizzo sul Corriere della sera, e tutti gli altri giornali al seguito, c’era già un intero repertorio di modi di dire e di pensare, espressioni, slogan, una cultura “antipolitica” che lisciava il pelo alla società civile. Dal democristiano di sinistra Beniamino Andreatta, che se la prendeva con “l’anonima partiti”, alle invettive di Marco Pannella contro la “partitocrazia”. Da Bettino Craxi, e dai tanti socialisti che non esitavano a civettare con l’estremismo degli anni Settanta contro il “consociativismo Dc-Pci”, fino a Matteo Renzi, con la “rottamazione” e il “taglio delle poltrone”.

Un linguaggio comune che il giornalismo italiano aveva coltivato, a cominciare dagli editoriali in cui Eugenio Scalfari contrapponeva ai politici di professione, ai grigi burocrati degli odiosi apparati, il mito di una politica e di un governo espressione diretta della “società civile”. Questo linguaggio si sarebbe in vario modo mescolato nei primi anni Novanta alle campagne giustizialiste contro i politici corrotti, alle polemiche liberiste contro la “spesa assistenziale e clientelare”, a varie idee di riforma del sistema elettorale e istituzionale contro la “palude proporzionale” e lo “strapotere delle segreterie di partito” nella formazione dei governi, e contro il “centralismo romano”, in chiave federalista (si pensi al Cacciari sindaco di Venezia), persino da parte di un nascente  “partito dei sindaci” (che D’Alema definì i nuovi cacicchi).

I risultati economici, sociali e civili del nuovo sistema sorto sulle macerie della deprecata Prima Repubblica sono ben riassunti nelle pagine che Draghi ha premesso al Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Per fare un esempio: “Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e del 43,6 per cento”. 
Per fare un secondo esempio: “Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7 per cento della popolazione – prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4 per cento”.
Per farne un terzo: “L’Italia è il paese dell’Ue con il più alto tasso di ragazzi tra i 15 e i 29 anni non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione (Neet). Il tasso di partecipazione delle donne al lavoro è solo il 53,8 per cento, molto al di sotto del 67,3 per cento della media europea”.

IL PROGRESSO INTERROTTO E’ successo cioè che il paese del miracolo economico, passato in un balzo dalle macerie materiali e morali del fascismo, dell’analfabetismo di massa, dell’arretratezza industriale, culturale e sociale, all’essere uno dei paesi in cui si vive meglio e più a lungo del mondo, da un certo punto in poi ha cominciato ad andare indietro. Invece di correggere quel che c’era da correggere in un sistema politico evidentemente in crisi, ha pensato di poterne semplicemente fare a meno. Invece di cambiare i timonieri, ha buttato il timone. E lo ha fatto 30 anni fa, ben prima delle elezioni del 2018.

Il Movimento 5 stelle e i mille altri leader populisti di oggi non sono gli artefici di questa situazione, ne sono il prodotto. Sono la società civile che ci meritiamo. Sono come i morti di fama che vanno in tv all’Isola dei famosi. L’uomo della strada che diventa personaggio politico & televisivo. Perchè il gioco di voler contrapporre una politica sporca e corrotta ad una società civile pura è stato solo un gioco di prestigio in quanto l’una è lo specchio dell’altra. Se i politici sono corrotti o incompetenti sono frutto della scelta di elettori che scelgono i loro simili. E’ una banalità ma in Italia elettori creduloni hanno fatto diventare il bibitaro dello stadio San Paolo, Luigi Di Maio, nientepopodimeno che ministro degli Esteri. Con l’avallo e il riconoscimento privato e pubblico di quello che ancora in tv si autodefinisce “sinistra” politica. E’ «uno che approfondisce, uno che studia» secondo Franceschini, mentre Conte sarebbe «autorevole, colto e anche veloce e sagace tatticamente» secondo Zingaretti.

PRIMA REPUBBLICA è un’espressione giornalistica italiana che si riferisce al sistema politico della Repubblica italiana vigente tra il 1948 e il 1994. Il sistema politico della Prima Repubblica si basava sulla Costituzione e la legge elettorale del 1946 di tipo proporzionale: questo carattere proporzionale fu mantenuto per mezzo secolo, nonostante le modifiche succedutesi nel tempo, fino a quando non subentrò la modificazione della legge elettorale in senso maggioritario nel 1993. Il sistema politico della Prima Repubblica fu perciò definito in senso spregiativo un «pluralismo polarizzato» dal politologo Giovanni Sartori, che gli attribuì le seguenti caratteristiche:

Presenza di più di cinque partiti rilevanti.

Presenza di partiti antisistema, ossia ideologicamente ostili alla stessa forma dello stato in cui operano, quali PCI e MSI.

Presenza di due opposizioni polari, mutuamente esclusive e con ideologie estremiste (appunto PCI e MSI).

Sistema imperniato sul centro, che è occupato dalla DC.

Tendenza centrifuga, poiché le opposizioni possono guadagnare consenso estremizzando le loro posizioni piuttosto che moderandole.

Opposizioni non responsabili, che propongono programmi irrealizzabili sapendo di non avere la possibilità di governare.

Centro scarsamente responsabile, che non mantiene le promesse del programma in quanto «obbligato» a governare.

La DC, grazie alla collocazione di centro e alle alte percentuali dei suoi risultati elettorali, ricopriva un ruolo insostituibile nella costruzione delle maggioranze parlamentari, formando di volta in volta con i partiti minori delle coalizioni diverse. Il PCI invece rimase sempre all’opposizione, a causa dei legami ideologici, oltre che finanziari, con l’Unione Sovietica. Per via di questo peculiare assetto politico (che rifletteva un assetto sociale non meno bloccato) quella della Prima Repubblica è stata definita una democrazia «bloccata» per l’assenza di una logica dell’alternanza che prevedesse alternative di governo come invece accadeva nelle altre democrazie occidentali, dove i partiti comunisti godevano di una forza e un consenso minore che in Italia.

Una tale situazione – influenzata dal «fattore K», secondo la definizione di Alberto Ronchey, rese le coalizioni di governo assai fragili durante tutta la prima Repubblica. Ad ogni modo questo fattore fu temperato dal  CONSOCIATIVISMO « (Quello italiano è un sistema di  negoziazione e ricerca del compromesso […] esso richiede che anche l’opposizione venga consultata»)  in quanto il sistema politico-istituzionale congegnato dai padri costituenti non ha agevolato la stabilità dei governi  ma ha dato troppo potere al Parlamento e troppo poco al capo dello Stato.
Disse alla Costituente Piero Calamandrei: «La democrazia, per funzionare, deve avere un governo stabile: questo è il problema fondamentale della democrazia. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato»
. Calamandrei aveva capito tutto, al contrario di tanti costituzionalisti in cattedra.

SECONDA REPUBBLICA La fine sostanziale della Prima Repubblica coincise con le elezioni politiche del 27 marzo 1994, che segnò l’affermazione del bipolarismo in Italia.  «La Seconda Repubblica italiana è un caso di trasformismo in grande scala: non un partito, non una classe, ma un intero sistema che si converte in ciò che voleva abbattere.» (Perrry Andreson, su London Review of Books)

I tratti distintivi della cd Seconda Repubblica sono: il leaderismo, il sistema maggioritario, la presenza di due coalizioni, lo strapotere della televisione. La politica in genere apprende l’uso della narrazione artificiale e fortemente personalizzata (il cosiddetto storytelling) e i programmi vengono definiti on demand sulla base dei desiderata popolari che i sondaggi evidenziano. Ancora non è finita.

Si pensi per un momento all’intreccio Mani Pulite- Berlusconi. I manettari (Davigo: non esistono innocenti ma colpevoli ancora non scoperti) all’inizio piacevano all’uomo del “fare”, il Caimano, che voleva Di Pietro come ministro della Giustizia. L’antipolitica era cavalcata sia dai giudici di Milano che dall’amico di Craxi che ne prese il posto, sino a quando le traiettorie non si incrociarono e la tv cominciò a raccontare il Caimano come “vittima” dell’accanimento giudiziario. Travaglio e la sinistra alla Violante stanno con i giudici e il Berlusca è l’Uomo nero.

TERZA REPUBBLICA NEL 2018 ? “Il Fatto” di Travaglio commentando le elezioni del 2018 titolava: “Elezioni 2018. La Terza Repubblica è cominciata. Ed assomiglia moltissimo alla Prima”. “Ha ragione Luigi Di Maio quando dice che la Terza Repubblica è cominciata. Finalmente. E assomiglia moltissimo alla Prima Repubblica del proporzionale, fotografia di un Paese felicemente dissociato. Da un lato il Paese legale, cioè le élite di giornaloni e dinosauri del fu centrosinistra (Prodi, Napolitano, Enrico Letta, Veltroni) che fino all’altro giorno ha cercato di imporre un quadro inesistente, fatto di presunta responsabilità e presunte competenze. Dall’altro, invece, il Paese reale che ha punito nell’urna l’arroganza delle élite, massì diciamolo pure della Casta, con numeri incredibili: più del 50 per cento del 73 per cento dei votanti che ha scelto Cinquestelle e Lega e un solido 27 per cento di astensionisti, la cifra più alta raggiunta in 70 anni di elezioni politiche per il Parlamento”. I portavoce di Grillo & Giuseppi ancora non si capacitano di come Mattarella abbia liquidato l’avv. der popolo di Casalino con Draghi.

Le elezioni del 4 marzo 2018 delineano ulteriormente il tripolarismo. La 3^ Repubblica  si caratterizza quindi per:

l’ascesa del M5S  a prima forza politica nelle urne e a primo gruppo parlamentare in entrambe le camere del Parlamento, che ha rotto il bipolarismo destra-sinistra caratterizzante la seconda repubblica, introducendo un tripolarismo di forze politiche;

il «sorpasso» elettorale della Lega su Forza Italia al minimo storico dalla sua nascita, ponendo la prima, col 17.37% dei voti espressi totali, a forza trainante della colazione di centro-destra, e quindi ridimensionamento di Berlusconi;

il peggior risultato dal 1913 per le formazioni di sinistra e centro-sinistra, scese dopo più di 100 anni sotto la quota del 25% dei voti espressi totali;

Quando nel 2019 il ministro dell’Interno Salvini l’8 agosto sfiducia il presidente del consiglio Conte facendo cadere il Governo Conte 1, or dunque, finisce la Seconda o la Terza Repubblica?

Conclude Cundari pertanto che,  in tempi di studi e rievocazioni intorno al Pci in occasione del suo centenario, l’intera storia della sinistra italiana possa essere riletta in questa chiave, e cioè proprio come costante affermazione del primato dell’antipolitica.

SIAMO SICURI CHE COMUNISTI E POSTCOMUNISTI ABBIANO INTESO AFFERMARE IL PRIMATO DELLA POLITICA E NON DELL’ANTIPOLITICA?

Il nuovo libro di Giuseppe Vacca, “Il comunismo italiano – Una cultura politica del Novecento” (Carocci) intende dimostrare che le culture politiche preesistano il partito che di volta in volta le incarna e possano di conseguenza sopravvivergli, anche molto a lungo. Tesi non peregrina sol se si pensi  al modo in cui tante persone continuano a parlare di comunisti e democristiani, fascisti e socialisti, pure diversi decenni dopo la fine dei partiti che così si chiamavano, magari per riferirsi a leader che al tempo di quelle definizioni non erano neanche nati (politicamente, e in qualche caso persino fisicamente). Vacca intende riassumere la storia del Pci nel difficile sforzo di affermare il primato della politica, e di una certa idea della politica, al proprio interno e nel paese. Per fare un solo esempio si può pensare a Giorgio Amendola, cui è dedicato un lungo capitolo. Era l’uomo di punta del rinnovamento togliattiano e della via italiana al socialismo negli anni in cui dentro il Pci si giocava la sfida decisiva tra lotta democratico-parlamentare e guerra civile, in contrasto con Pietro Secchia, all’indomani della Liberazione. E fu anche il durissimo fustigatore degli intellettuali che negli anni settanta si sarebbero lasciati sedurre (o intimidire) dalle sirene dell’estremismo, da parole d’ordine violente e insensate, dal pericoloso qualunquismo di false equidistanze del genere “né con lo Stato né con le Br”. La domanda storica è allora la seguente: cosa c’entra con gli Amendola e la raffermazione del primato della politica l’alleanza strutturale con Luigi Di Maio ?

Com’è che la cultura politica comunista, incarnata in Togliatti e Amendola, diventata “postcomunista” arriva a vedere nella gente dell’antipolitica e dei vaffa che voleva aprire il Parlamento coma una scatoletta di tonno, gli “alleati” del fronte progressista?

Forse la ragione per cui questo aspetto della “cultura politica” postcomunista si è completamente dissolto, a pensarci bene, dipende dall’indebolimento del legame tra politica italiana e politica internazionale dopo l’89.

Quando la delegittimazione reciproca tra i partiti si svolgeva lungo il crinale di uno scontro internazionale, perché democristiani e comunisti si accusavano di essere servi di Mosca o servi degli americani – cioè di essere dei potenziali golpisti, non dei rubagalline – la questione della difesa delle istituzioni democratiche, e dunque anche della loro legittimazione, assumeva per entrambe le parti un certo valore, anche dal punto di vista pratico. E non ci sputavano sopra tanto facilmente, per ottenere lo 0,1 per cento in più nei sondaggi, che peraltro non esistevano, almeno nella forma attuale. E sicuramente anche questo aiutava.

In Italia si governa sempre contro qualcuno e mai per risolvere problemi. Ma quel qualcuno poi diventa inesorabilmente partner di formule eccezionali e, comunque, assolutamente estranee alla volontà degli elettori. Di volta in volta è stato agitato lo spauracchio dei comunisti al potere, di Berlusconi al potere, di Salvini al potere, dei poteri forti al potere… E poi si è finito col governare con i comunisti, con Berlusconi, con Salvini, con i poteri forti…

L’esito è un Paese instabile, incapace di riforme radicali, che non trova la forza di riconoscere la limpida differenza degli schieramenti, non consente il formarsi di quella democrazia dell’alternanza che era stata, almeno all’inizio degli anni Novanta, la novità di una democrazia bloccata e finisce con lo smarrire la bellezza del confronto tra culture e politiche alternative.

Stabilità e alternanza sono bastioni della democrazia. Lo disse lucidamente Roberto Ruffilli: «Il pregio delle proposte per l’introduzione del maggioritario è la consacrazione del ruolo di arbitro ultimo del cittadino per la formazione e il ricambio della maggioranza di governo in una democrazia pluralistica, caratterizzata dalla perdita di terreno per una politica totalizzante e per modelli ideologizzati di ordine e di sviluppo ad esito obbligato».

Nei 75 anni di regime repubblicano, l’Italia ha conosciuto 66 governi e 29 presidenti del Consiglio. Ogni legislatura ha visto nascere 3,6 governi diversi. In quest’ultima quasi duecento parlamentari hanno cambiato gruppo di appartenenza.

Dal 1994, con la sedicente Seconda Repubblica, si sono succeduti 16 governi con 10 premier, durata media 617 giorni. Nello stesso periodo in Francia ci sono stati 5 presidenti, 5 in Spagna, 3 cancellieri in Germania. Dal ’92 sono cambiate quattro leggi elettorali in Italia. Nessuna in Francia o in Gran Bretagna.

Alla domanda iniziale (perchè non vogliamo una democrazia dell’alternanza?) abbiamo risposto. Occorre accogliere l’appello del presidente Mattarella a interpretare questa fase originale (Draghi) con spirito costruttivo, le forze politiche si confrontino dunque per trovare una soluzione duratura e condivisa. Partendo dalla domanda giusta, però: come garantire all’Italia di avere governi scelti dai cittadini, che durino cinque anni, siano formati da forze omogenee per valori e programmi e che combattano l’avversario in ragione di questi.

Prima di concludere, si deve aggiungere che oltre a governi instabili e trasformisti stiamo conoscendo il problema delle Regioni, con Governatori che fanno quello che vogliono. Per amore di verità uno solo ha in tutti questi anni provato a cambiare le cose con la legge elettorale e la riforma costituzionale. Si chiama Renzi ed anche lui ha fatto dell’antipolitica la sua cifra. I costituzionalisti e tutti i suoi nemici hanno impedito che nel 2016 l’Italia diventasse un paese normale. Renzi sarà ricordato come uno sbruffone antipatico ma quantomeno ci ha provato. Tutti i suoi nemici ancora in azione, simpatici, omaggiati da giornali e tv, non ci hanno neppure provato, e per me sono ugualmente responsabili di una democrazia all’italiana che non vuole governi STABILI perchè così ognuno può trovare la sua rendita di posizione.