(apr 2022) Ma, a questo punto, sarà bene capire cosa sia questo mostro, il liberismo, da cui tanti vogliono difenderci. E qui risulta utile “La verità, vi prego, sul neoliberismo” (Marsilio) il documentatissimo saggio di Mingardi (direttore dell’Istituto Bruno Leoni), che nella prima parte ridimensiona il mito del mercato pervasivo e tirannico, governato da una sorta di Spectre di liberisti. «I due indizi principali (di una politica liberista, ndr), politiche di liberalizzazioni e deregulation – si legge nel libro – restano sostanzialmente una rarità in molti paesi occidentali, il loro effetto spesse volte è più che bilanciato da iniziative di carattere contrario e sono state messe in atto consapevolmente, come progetto unitario di riforma della società, solamente in un paio di occasioni, trent’anni fa, negli Stati Uniti e in Inghilterra. All’opposto di chi, di solito, scrive di neoliberismo, l’autore di queste pagine è convinto che Ronald Reagan e Margaret Thatcher siano stati la fioca luce di un secolo buio. Ma l’uno ha lasciato la Casa Bianca nel 1988 e l’altra Downing Street nel 1990… Erano giganti ma giganti di un’altra era».
Nello svolgimento del libro, poi, Mingardi ci mostra come dobbiamo crescita e prosperità a quel poco di liberismo introdotto nelle nostre economie. Nel 2000 il 29% della popolazione mondiale, stimata di 6 miliardi, viveva in povertà; nel 2019, quando è stato pubblicato “La verità, vi prego, sul neoliberismo”, solo il 10% degli esseri umani viventi, era indigente. Nel frattempo il numero di abitanti della Terra era salito a 7 miliardi. Le disuguaglianze sono rimaste. Ma, osserva Mingardi concludendo il suo lavoro, «le disuguaglianze sono ubique nella storia. Nei sei millenni trascorsi dalla fondazione delle prime città, cioè da quando la parola “politica” ha cominciato ad avere un senso, una sola società è riuscita a calmierarle: la società industriale.
Non dovrebbe stupirci l’abisso di possibilità che separa oggi un normale impiegato di banca e un multimilionario: dovrebbe stupirci quanto invece la loro vita si assomiglia. Abluzioni quotidiane, automobile di proprietà, infinite possibilità di intrattenimento, a portata di clic, viaggi aerei, saper scrivere e leggere, cure mediche che una generazione fa sarebbero state fantascientifiche. Un contadino del Seicento col suo sovrano aveva in comune giusto la necessità di soddisfare i bisogni primari: le modalità, purtroppo, erano agli antipodi. Oggi media e politici suggeriscono alle classi medie di sentirsi schiacciate dalla globalizzazione perché girano con un piccolo suv coreano, anziché con uno più marziale e di una prestigiosa marca tedesca. Abbiamo molto da perdere, solo che non ce ne accorgiamo».
Insomma, il neoliberismo è “una scatola vuota che facilmente si riempie con ciò che ciascuno più detesta”.
(ferruccio de bortoli) Nel suo “La verità, vi prego, sul neoliberismo” (Marsilio), il direttore dell’Istituto Bruno Leoni si mostra convinto che le politiche di liberalizzazione e di apertura dei mercati siano state una rarità. «Non c’è disastro, dall’incendio della Grenfell Tower a Londra al crollo del ponte Morandi a Genova — scrive Mingardi, che è anche docente di Storia del pensiero politico — che non sia colpa del neoliberismo».
La concorrenza rimane una chimera. L’Italia avrebbe l’obbligo, dal 2009, di produrre ogni anno una legge sulla concorrenza. L’ha fatta una volta sola il governo Renzi. E dopo 895 giorni è uscito dal Parlamento un mostro giuridico. «In un Paese come il nostro — scrive l’autore — nel quale gli stessi legislatori ignorano quante siano di preciso le leggi, parlare di neoliberismo o di eccesso di deregolamentazione è persino ridicolo». Un Paese più diseguale. Secondo Mingardi, soprattutto maledettamente immobile. Ricurvo su se stesso.
Anche l’euro è colpa o merito del neoliberismo? La moneta unica non piaceva a Milton Friedman. È stata una creatura dei poteri statali. Con un grande merito, nell’analisi liberale: l’indipendenza della banca centrale. La sovranità monetaria degli Stati, nell’opinione dell’economista spagnolo Jesús Huerta de Soto, è «la possibilità di manipolare la propria moneta per metterla al servizio delle necessità politiche». E i cambi fissi costringono i governi a «dire la verità ai cittadini». Se avessimo ancora la lira — che nei dieci anni precedenti all’euro perse la metà del proprio valore sul dollaro — oggi, con quel ritmo di svalutazione, un iPhone ci costerebbe tre volte di più. E così la benzina, i viaggi aerei. Ma la nostalgia, tratto irrazionale di questa fase della politica, ingigantisce i presunti vantaggi del passato e cancella il ricordo di miserie, malattie, guerre. Il ritorno alla tribù non nasconde solo il desiderio di vivere in un luogo sicuro. C’è il fastidio della complessità, che comporta sacrificio, studio, impegno.
La cosa curiosa del liberismo è che gli si rimprovera tutto quello che il liberismo avrebbe provocato e prodotto dove non c’è mai stato. E neanche si discute del liberismo come teoria economica o pratica di governo che, appunto, non c’è ma piuttosto si parla del liberismo “selvaggio” che sarebbe genitore di squilibri e diseguaglianze.
Il tutto in un Paese in cui lo Stato occupa stabilmente più della metà del mercato, sicché sarebbe assimilabile più al socialismo che al liberismo. Guardate in Borsa quali sono le società più patrimonializzate: hanno lo Stato come azionista dominante, tanto che i vertici sono nominati dalla politica. È singolare che a lamentarsi di questa pratica siano gli stessi che poi lamentano gli eccessi del liberismo selvaggio. Verrebbe da chiedere loro: avete idea di quel che state dicendo?
Guardate i servizi che il cittadino è tenuto a finanziare, sia come contribuente che come cliente – dai trasporti alla produzione e distribuzione di energia, dalla raccolta dei rifiuti alla distribuzione dell’acqua – e che sono tutti in mano al capitalismo di Stato o a quello municipale. Il che, ancora una volta, ricorda più il socialismo che non il liberismo. La realtà è che si parla, spesso a vanvera, di cose che neanche esistono e siccome se ne parla a lungo e insistentemente va a finire che una volta trascorso il tempo si suppone siano esistite e, pertanto, abbiano fallito.
La morte dell’economia di mercato è stata a lungo un evento prima previsto e poi auspicato. Ogni volta che una fabbrica in Italia chiude licenziando le maestranze, in tv appaiono i soliti politici e sindacalisti per maledire l’economia di mercato. Subito dopo propongono la loro miracolosa ricetta: intervenga lo Stato. E’ una litania continua, per ogni crisi, ogni fabbrica che chiude o si sposta, la cura è l’intervento dello Stato. Il lavoro non si tocca, intervenga lo Stato. Secondo questa teoria politica, dovremmo tutti, dalla maggiore età in poi, diventare dipendenti pubblici. Inamovibili e illicenziabili. La Grecia ci ha provato a mettere in pratica questa teoria (che altri denominano del “reddito minimo”) ma ha fallito. Ormai si vive di rimpianti. Rimpiangiamo i vecchi negozi di quartiere, soppiantati dai centri commerciali, soppiantati da Amazon. Come erano belli i calessi soppiantati dalle auto, le navi soppiantate dagli aerei, le porte blindate soppiantate dai sistemi di allarme.
Tutti quelli che sono contro l’economia di mercato sono costretti ad immaginare un mondo dove:
- tutti gli imprenditori nessuno escluso sono dei massimizzatori di profitti. Pertanto, si possono accettare soltanto quelli che entrano in affari per diventare più poveri.
- Tutti gli imprenditori sanno sin da principio quale prodotto o servizio avrà successo.
Proprio considerando queste due condizioni, si ritiene che solo lo Stato con le sue imprese possa mirare al bene pubblico e non solo al profitto e possa sapere sin dall’inizio quale siamo i prodotti e i servizi di cui i cittadini abbiano bisogno. L’economia politica leninista è nata su questi due presupposti, ma poi corsero ai ripari con la Nep, un sistema misto di cui i marxisti di oggi non si ricordano mai. Con la stessa mentalità ci siamo accostati alla pandemia. Gli Stati hanno scelto di ridurre la libertà di movimento delle persone e hanno compensato gli individui di questa perdita attraverso sussidi nell’ordine di svariati punti di Prodotto interno lordo. Questo è stato possibile nella credenza che saranno le Banche centrali (la Federal Reserve e la Banca centrale europea) a rendere sostenibili debiti pubblici più elevati che in passato: nel caso degli Stati Uniti, decisamente più elevati che in passato. Sappiamo quel che è successo.
Le persone hanno percepito di ricevere soldi “piovuti dal nulla”, che tuttavia per un anno (a causa delle restrizioni) hanno potuto spendere con una qualche difficoltà. L’allentamento delle restrizioni ha prodotto un aumento dei consumi che si è scontrato con una capacità produttiva che, nell’anno della pandemia, si era prudentemente e velocemente riorientata e con un’economia globale gravata da dazi che concorrono anch’essi a un aumento dei prezzi. L’esito è l’inflazione ormai ripartita che potrebbe indurre le Banche centrali a un cambiamento di rotta.
Se l’economia di mercato non è morta, i suoi spazi si stanno assottigliando con grande rapidità. Ogni Stato nazionale quando eroga aiuti, è noto, sa che è tanto facile dare quanto difficile togliere. Il fisco italiano ben prima del covid ha previsto misure chiamate tax expenditures: esenzioni, detrazioni, crediti d’imposta, aliquote agevolate per categorie e contribuenti vari. Sono centinaia, e decine di milioni i contribuenti interessati. Sono decenni che queste misure non si riesce neppure a diminuirle. La Federal Reserve e la Banca centrale europea pertanto sono istituzioni il cui potere è andato crescendo enormemente in pandemia perchè garantiscono i debiti accumulati dagli Stati nazionali. Solo che bisogna considerare “l’effetto cricchetto”, che potrebbe risultare la zeppa che incastra l’ingranaggio. Come ha spiegato in un’importante ricerca del 1987 l’economista Robert Higgs “lo Stato è cresciuto repentinamente all’arrivo di ogni grande crisi, guerra o emergenza nazionale. Dopo che la crisi è passata, il peso dello Stato si è ridotto, anche se solitamente non è tornato ai livelli pre-crisi. Si torna alla “normalità” ma la normalità non coincide appieno con il mondo di prima”.
L’idea chiave degli intellettuali contemporanei è una sola, che le imprese lasciate libere allochino risorse in modo dannoso per la società nel suo complesso e pertanto le scelte (in termini di persone impiegate, di stabilimenti aperti, di prodotti realizzati) vadano corrette “a monte”. Guardate tutte le agevolazioni (superbonus 110%) e i bonus (infissi, bagni, mobili, facciate) che in Italia intendono orientare dall’alto l’economia per incentivare certi tipi di prodotti, interventi e acquisti. Questa è l’idea di fondo anche se spesso abbelliscono il tutto dicendo che il capitalismo debba essere “temperato” nei suoi effetti sociali, assicurandosi che nessuno resti indietro.
In realtà nella pandemia l’economia di mercato ha apportato benefici considerando soprattutto la velocità con cui si è arrivati in breve tempo ad avere addirittura più di un vaccino contro la malattia prodotta da SARS-CoV-2. I più ottimisti fra gli esperti prevedevano lo sviluppo di un vaccino in circa due anni. Big Pharma ce l’ha fatta in otto mesi. Inoltre stiamo osservando la capacità di ricalibrarsi delle filiere internazionali.
Tra l’altro la pandemia Covid-19 è esplosa in un mondo nel quale l’intervento pubblico era più esteso di quanto non lo fosse mai stato, perlomeno nei Paesi occidentali.
L’economia di mercato ha straordinariamente arricchito la nostra parte di mondo, e poi anche il resto del pianeta, proprio perché scombina i piani degli esperti. “Dove” e “come” debbano essere allocate le risorse dipende da negoziazioni e scelte disperse nella società, con una pluralità di “decisori” che seguono ciascuno la sua strada e provano a mettere in gioco intuizioni le più diverse. Se le Banche centrali diventano i “decisori di ultima istanza”, il mercato non c’è più. I nostri Paesi sono da anni economie miste e in queste economie la componente libera e privata sta rapidamente contraendosi e va concentrandosi in spazi interstiziali. Conta anche il fatto che Covid-19 ha reso ancora più forte un pregiudizio delle nostre classi dirigenti: quello per cui le decisioni degli individui, se non guidate dall’alto, sono pericolose e irrazionali e vanno per questo riorientate da alcuni sapienti mandarini. La società aperta è molto più “chiusa” oggi di quanto non fosse a fine 2019. Senza libertà, non c’è capitalismo e quindi tutti quelli che hanno dedicato la vita a combattere il capitalismo e a desiderare il comunismo saranno contenti. Bisogna vedere se aumentando le industrie di Stato e diminuendo le libertà degli individui di scegliere (dal cosa produrre a dove, dal cosa comprare a cosa decidere per la propria vita) le nostre comunità vivranno meglio.
A Siena l’intera economia di una città si basava su una banca e su un partito. Non era il modello sovietico ma qualche somiglianza c’era. Caduta la banca la cosa più semplice è stata far subentrare lo Stato (democratico). E’ questo il nuovo modello economico che intende soppiantare l’economia di mercato?