Conte, un Dibba con la pochette (F. Verderami)

(Giugno 22, Corsera) La storia del Palazzo è piena di conversioni. Anche se non era mai successo che un ex presidente del Consiglio, pur di sopravvivere politicamente, arrivasse a smentire se stesso. Perché l’uomo che oggi si propone nel ruolo di leader anti-sistema è lo stesso che andò fino ad Avellino per parlare davanti a De Mita dei «valori del popolarismo». Ed è sempre lui che, innalzando la bandiera del pacifismo e opponendosi all’invio di nuove armi all’Ucraina, dimentica cosa fece durante la sua esperienza a palazzo Chigi. Nel 2019, per assecondare l’amico Trump, «Giuseppi» firmò il documento della Nato che impone di portare le spese militari al 2% del Pil. Nel 2020 autorizzò la vendita di due navi da guerra alla Marina militare egiziana, incurante delle polemiche che scoppiarono nella sua maggioranza per via del «caso Regeni».

Infine, con la Finanziaria del 2021 è passato alla storia come il capo del governo che più di ogni altro ha aumentato il budget della Difesa. Ecco qual è il passato di Conte, che per difendersi da Di Maio ha trovato il modo di fargli ricordare il suo passato, scandito da infatuazioni per il regime venezuelano e i gilet gialli. L’accusa al ministro degli Esteri di esser rimasto folgorato sulla via del draghismo per ragioni di potere, è il sistema per additarlo agli occhi dei militanti come un traditore del Movimento. «D’altronde quando un leader è in difficoltà denuncia un tradimento», spiega uno dei maggiori esponenti del Pd. Preoccupato che accada ciò che Letta prova a esorcizzare: «Le discussioni nei partiti sono il sale della democrazia». In realtà dentro M5S è in atto una scissione e l’onda d’urto potrebbe colpire il Nazareno, che rischia di ritrovarsi al fianco un alleato radicalizzato e un Movimento destinato all’irrilevanza. Da tempo Di Maio provava a mettere sull’avviso il leader democratico. Appena Conte iniziò a trasformarsi in un «Di Battista con la pochette», il ministro degli Esteri si rese conto di quanto il suo comportamento fosse «politicamente pericoloso» e lo rappresentò: «Siccome non ha una linea, può andare ovunque. E a forza di alzare il tiro non si sa dove può arrivare. Dovete fargli capire che se rompe sul governo lui non va all’opposizione, porta il Paese alle urne. Dovete smetterla di trattarlo come un invincibile».

Al Nazareno l’hanno capito tardi: è bastata una sommaria lettura dei risultati grillini alle Amministrative. Così, dopo due mesi a sostenere che «la linea di Conte è insostenibile», il titolare della Farnesina è uscito allo scoperto. Il suo destino è segnato: dentro M5S non ha più spazio. Conte dice che «Luigi si sta cacciando da solo», Di Maio dice che «Giuseppe si sta cacciando all’angolo da solo». Fico sta con il leader. Intanto perché gli ha garantito una poltrona nel partito quando dovrà lasciare quella della Camera, eppoi perché ha il dente avvelenato con il ministro degli Esteri: ragioni di bottega in Campania, dove i due si sono accapigliati per uno strapuntino al consiglio comunale di Napoli, come accadeva nei partiti della prima e della seconda Repubblica. Insomma nel Movimento ha vinto Conte, grazie anche al sostegno di Grillo. Cosa abbia vinto non è chiaro, perché nei gruppi parlamentari regna il caos. Persino quelli che non sopportano Di Maio non accettano forzature sulla politica estera. Ovviamente per motivi pensionistici.

Il sottosegretario Amendola, che rappresenta il governo al tavolo delle trattative per la fatidica risoluzione del 21 giugno, ride quando gli chiedono se il compito a cui è stato delegato sia la colpa da espiare per essere stato troppo comunista nella vita precedente. L’ironia napoletana in certi casi serve ad alleviare la fatica. E in fondo è ironico anche Di Maio quando invita il Movimento a mantenere la regola dei due mandati: forse pensa a quanti grillini verranno eletti nella prossima legislatura grazie alla linea di Conte.