Perché vincerà la Meloni e Letta non attacca Conte

(Claudio Cerasa) Per quanto il Pd si possa sforzare di descrivere la vittoria del centrodestra come una minaccia per la democrazia italiana, la possibile vittoria di Meloni & co. non sembra preoccupare più di tanto chi ha in mano il destino economico del nostro paese. E a Cernobbio, in un certo senso, Letta lo ha percepito in prima persona: gli investitori, gli imprenditori, i manager, gli osservatori internazionali non si fidano di un possibile governo Meloni ma non a tal punto da essere spaventati da una tale prospettiva.

E dunque, sì, ci sono preoccupazioni per il futuro dell’Italia, movimenti speculativi pronti a mettersi in azione, ma sono tutti timori che al momento sembrano essere legati più all’impatto che avrà l’aumento dei tassi di interesse per un paese molto indebitato come l’Italia che all’impatto che potrà avere sui nostri conti pubblici un governo trainato da un partito sovranista. E la domanda che si pongono in molti, e che forse si pone anche Letta, è: perché? O meglio ancora: perché Meloni, pur avendo molti scheletri nell’armadio populista, non fa paura come i nemici della Meloni si augurerebbero? Per rispondere a questa domanda – e per capire perché, come ci racconta un importante finanziere, “nessun grande fondo di investimento ha speculato sui nostri Btp e nessun grande investitore in Italia ha scelto di portare via i propri risparmi dal nostro paese pur avendo la certezza quasi matematica che l’Italia verrà governata da Meloni & co.” – si possono azzardare cinque risposte.

La prima ha a che fare ancora una volta con l’agenda dei doveri e il fatto che Meloni non dica di voler rinegoziare il Pnrr è, dal punto di vista di un investitore interessato all’Italia, un punto a suo favore. La seconda risposta ha a che fare con un atteggiamento messo in campo da Meloni negli ultimi giorni: far sapere che in caso di difficoltà dell’Italia, vedi la crisi energetica, la leva del volere più debito pubblico deve essere sostituita con la leva del volere più Europa. La terza risposta riguarda la collocazione internazionale e il fatto che Meloni venga percepita e si voglia far percepire come una fedele alleata della Nato, senza ambiguità sulla Russia, sulla Cina, su Taiwan, le permette di scommettere su uno scenario non impossibile da immaginare: usare il suo atlantismo come uno scudo utile per allontanare anche nelle cancellerie europee l’alone dell’inaffidabilità.

La quarta risposta coincide con la volontà di Meloni di far sapere a tutti gli investitori, italiani e stranieri, di avere intenzione di scommettere, in caso di vittoria, su un ministro dell’Economia tarato non sul modello Paolo Savona, e neppure sul modello Giulio Tremonti, ma sul modello Fabio Panetta, stimatissimo membro del board della Bce. La quinta risposta coincide con la volontà di Meloni di far sapere il più possibile, ai suoi interlocutori internazionali, che in caso di vittoria il ruolo di ministro dell’Interno non andrà per nessuna ragione a Matteo Salvini, che non basta a rassicurare sulle intenzioni della destra sovranista in materia di immigrazione ma che basta a capire che oltre un certo limite forse Meloni non vuole andare. Ispirare fiducia no, ma per capire perché Meloni non riesce a mettere paura fino in fondo neppure ai suoi potenziali avversari bisogna concentrarsi su questi punti e capire fino a che punto il make up di Meloni reggerà alla prova di uno specchio chiamato realtà.

(scoppetta) Quindi la situazione è la seguente. Da una parte abbiamo la Meloni che sta con la Nato e gli Usa (però non può vedere nè i francesi nè i tedeschi, ecco il dramma isolazionista) e apprezza le ricette Draghi, dall’altra abbiamo Salvini che cerca in tutti i modi di apparire come quello disponibile, come il suo compare Conte, a fare debito per fronteggiare i rincari delle bollette. Da una parte abbiamo la Meloni alla quale il RdC non va bene così com’è, dall’altra abbiamo Conte che invoca la guerra civile se lo toccano.
Da una parte abbiamo quelli che promettono soldi, assistenza, bonus, assunzione dei precari di tutte le amministrazioni, dall’altra abbiamo una che, grazie ai preziosi consigli di uno come Crosetto che l’economia la conosce, sa che con i mercati non si può giocare, se vuoi governare. Se vuoi stare all’opposizione godendoti i privilegi dell’essere parlamentare tutto fa brodo, ma se gli italiani ti mandano al governo, la ricreazione è finita e agli Interni non puoi avere un Salvini col basco che si trastulla con i migranti.
Il dramma di questo paese è che Letta e il pd stanno in mezzo, senza scegliere con chi stare. Anzi, per la verità Letta ha in cuor suo già scelto: sapendo che perde vuol fare l’opposizione comoda insieme con l’amico grillino, Giuseppi il bipopulista che sta con Trump, contro Draghi, l’Europa ed è pure convinto che Putin vuole la pace (come Berlusconi)

A pochi giorni dal voto il Pd non è ancora in grado di chiedere un voto per governare con una chiara formula e un candidato presidente del Consiglio riconosciuto: se per caso il Pd vincesse, con chi governerebbe? Ancora con il populista Conte col quale i rapporti sono azzerati? Con un Terzo Polo continuamente accusato di essere l’utile idiota della destra?

Qui sta il suo vero punto debole perché puoi anche avere i programmi più belli del mondo ma se non indichi agli elettori chi li dovrebbe mettere in atto rischi di aver fatto un lavoro inutile. Non resta dunque che l’allarme per la democrazia, un classico dei momenti più difficili. Probabilmente è un grido che mobiliterà i militanti ma non è detto che comunicare al Paese la paura di perdere risulterà efficace.