Il Pd è nato per superare l’accozzaglia prodiana, ma 15 anni dopo rischia di ricascarci

Con i giochetti intorno alla «fase costituente» e al «manifesto dei valori», il tasso di ipocrisia del dibattito interno al Partito democratico ha superato ogni record precedente, rischiando così di offuscare completamente i reali termini della discussione.

È un giudizio che può apparire severo solo a chi negli ultimi cinque anni sia stato molto distratto. Basta ricordare che alle precedenti elezioni del 2018 il Pd guidato da Matteo Renzi aveva ottenuto il 18,7 per cento, minimo storico, e che di conseguenza nel marzo 2019 aveva stravinto le primarie, con il 66 per cento, Nicola Zingaretti.

Motivo per cui il 66 per cento dell’Assemblea nazionale (il “parlamento” del Pd) dal 2019 è composto da dirigenti che a Renzi contestavano la deriva liberista e di destra, propugnando il ritorno all’identità di sinistra. Questa è la piattaforma su cui è stato eletto il segretario e che giustamente e democraticamente si è riverberata, a cascata, in tutti gli organismi, gli incarichi, le nomine (compresa quella del successore di Zingaretti, Enrico Letta, il quale ha proceduto da par suo a completare l’opera con le ultime liste elettorali).

Quattro anni dopo, nel 2022, il Pd ha preso più o meno gli stessi voti di quattro anni prima (19,1 per cento, con dentro Articolo 1, la lista-associazione di Elly Schlein e una manciata di altri microsoggetti), ma a seguire il dibattito negli organismi dirigenti sembra di riascoltare parola per parola l’analisi del voto del 2018: il problema è sempre la deriva liberista e di destra impressa dal renzismo, nonostante Renzi e i renziani dal Pd se ne siano andati ormai quattro anni fa, pochi mesi dopo l’ultimo congresso, per fondare un altro partito.

Sarebbe ora che i vincitori del congresso del 2019 si prendessero la responsabilità dei risultati del 2022. Il problema è che questo impedirebbe loro di riproporre le stesse ricette e gli stessi slogan (dell’ultimo congresso e delle ultime elezioni). Così preferiscono prendersela da un lato con le scelte compiute da Renzi nel 2018, nel 2016 e nel 2014, dall’altro addirittura con il Manifesto del 2007, dove secondo alcuni già si sarebbero annidati i germi della famosa deriva liberista (senza peraltro che nessuno di loro se ne accorgesse, almeno fino a ieri, cioè per ben quindici anni).

In un certo senso, viene voglia di dare ragione a Michela De Biase, neodeputata del Pd e moglie di Dario Franceschini, che a Repubblica spiegava ieri il suo sostegno a Elly Schlein. In particolare quando, all’obiezione: «Schlein ha criticato duramente il Pd com’è stato sin qui», rispondeva senza esitazione: «A me non è parso».

In effetti Schlein, alle ultime elezioni, era la candidata di punta del Pd di Letta, il simbolo del rinnovamento e della cosiddetta svolta a sinistra (personalmente avrei delle obiezioni su entrambe le definizioni, ma prendiamo per buone le categorie del dibattito che si è svolto sui giornali e in tv senza troppo filosofeggiare). Per quale motivo, dunque, dovrebbe essere oggi la candidata di rottura? Semmai sarà la candidata del gruppo dirigente uscente, che prima l’ha pregata con successo di dimettersi da vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, a neanche due anni dalla sua elezione, per candidarsi al Parlamento, e ora la prega di prendere gentilmente la tessera affinché possa candidarsi a capo del partito, cosa che dopo lunghe riflessioni ha finalmente accettato di fare (ovviamente «in punta di piedi» e sempre mettendo al centro «il noi» piuttosto che «l’io»).

Dall’altra parte, in compenso, c’è Stefano Bonaccini, che ripete anche lui, proprio come Schlein, e come ogni candidato alla segreteria del Pd dalla sua fondazione a oggi, di volerla finire con le correnti, di voler ripartire «dai territori», dai sindaci e dagli amministratori locali, e di voler rilanciare l’identità del Pd.

Il quadro non sarebbe completo se però non aggiungessi anche la versione di Renzi, il quale da un po’ ha ricominciato a raccontare la vecchia storia secondo cui il vero scontro sarebbe, da sempre, quello tra chi voleva fare il Pd, come Romano Prodi e Walter Veltroni (e Renzi medesimo, of course), e chi invece quel progetto lo ha sempre sabotato, come Massimo D’Alema.

Non è così, la storia è molto più complicata e assai meno lineare, ma non c’è bisogno di ricominciare sempre dall’inizio. Qui basta segnalare che il video citato dallo stesso Renzi, in cui D’Alema nel ’99 irride chi vorrebbe fare un grande partito democratico con dentro di tutto, dai verdi ai neocomunisti, non è affatto in contraddizione con il progetto del Pd per come fu effettivamente realizzato (e che infatti i fautori di quella soluzione contrastarono in ogni modo, definendola una «fusione fredda»).

Il Partito democratico fu il frutto di un lungo e complicato lavoro, pieno di contraddizioni e passi indietro, ma non fu mai il partito unico del centrosinistra, non fu mai il partito-coalizione all’americana, bensì l’unione dei riformisti per creare l’equivalente italiano della Spd tedesca, del Labour britannico, del Psoe spagnolo. E non sarebbe mai nato se D’Alema nei Ds da un lato e Franco Marini nei Popolari dall’altro non avessero spinto in quella direzione, trovando su questo un accordo con Prodi (che avrebbe preferito l’altra strada).

La tensione originaria, al di là dei personalismi, era semmai proprio tra queste due diverse idee di cosa dovesse essere il Pd: un partito riformista, con un’identità precisa (ben distinta da radicalismi e populismi di altre forze del centrosinistra), o un partito-coalizione la cui identità, nei fatti, non era altro che la somma delle sue parti, traducendosi in concreto in una sostanziale delega in bianco al leader, incoronato dalle primarie e candidato (di fatto) a Palazzo Chigi.

Il convitato di pietra del dibattito di oggi non è dunque Renzi o il renzismo, ma semmai Prodi, o meglio ancora il prodismo, inteso per l’appunto come quell’idea di centrosinistra: una carovana costantemente impantanata in estenuanti mediazioni interne, che produceva governi da cento sottosegretari e tavoli di coalizione che occupavano l’intera Reggia di Caserta (e questa non è una battuta, purtroppo).

È proprio per rispondere all’impraticabilità di quel modello che era nato il Pd. È per liberarsi da quella zavorra che Veltroni aveva compiuto la discutibile scelta di annunciare la corsa solitaria alle elezioni del 2008. Ed era proprio per non tornare in quella palude che Renzi nel 2010 aveva lanciato la sua sfida a Pier Luigi Bersani e ai suoi progetti di coalizioni larghissime (e a geometria variabile). Eppure è proprio a quella non esaltante stagione che il Pd rischia di ritornare – a quelle coalizioni interminabili capaci di vincere a stento le elezioni (sarebbe più corretto dire pareggiare, specie nel 2006) ma mai di governare – tanto più adesso che il Movimento 5 stelle sembra collocarsi più o meno dove si trovava il suo primo prototipo, l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro.

L’impressione è che né Bonaccini né Schlein abbiano la forza e forse nemmeno la volontà di evitare un simile ritorno al passato, e che tante chiacchiere sull’identità del Pd e tante pose più o meno innovative o radicali nascondano al contrario un riflusso verso quello schema dell’Unione prodiana che il Pd era nato per superare. Con l’ulteriore aggravante che oggi, in una coalizione del genere, ammesso e non concesso che si riuscisse a formarla, i democratici non sarebbero nemmeno il principale contraente.