Breve storia politica italiana, dal proporzionale al partito personale

La vicenda storico politica dell’Italia del dopoguerra è ormai ben nota. Il PCI si è a lungo presentato come partito «anti-sistema» per i suoi legami con l’Unione Sovietica e la sua presa di distanza dall’economia di mercato con l’obiettivo del superamento del capitalismo (a differenza dei partiti socialdemocratici europei). Non era quindi possibile l’alternanza al governo tra i principali partiti, come in altri paesi europei dove i partiti socialisti avevano chiaramente accettato l’economia di mercato e le istituzioni della democrazia rappresentativa.

Questa condizione anzitutto ha spinto la DC alla ricerca di consenso particolaristico, giustificata con la necessità di rafforzarsi per difendere la democrazia da forze «anti-sistema».
Alla deresponsabilizzazione della principale forza di governo, la DC, riguardo ai costi sistemici a lungo termine delle sue politiche volte a ricercare e a stabilizzare il consenso, si affiancava una deresponsabilizzazione simmetrica della principale forza di opposizione, il PCI, che sosteneva direttamente, e tramite quella parte rilevante delle organizzazioni sindacali da esso a lungo influenzata (CGIL), rivendicazioni dei salariati e dei gruppi sociali più vicini volti a migliorare i benefici a breve del proprio elettorato di riferimento indipendentemente dalle loro conseguenze sistemiche a lungo termine (si pensi alla politica pensionistica, o alle misure per la disoccupazione).

I costi della deresponsabilizzazione di DC e PCI e del peggiore consociativismo che ne derivava (in forma nascosta) si sono poi rafforzati a vicenda e sono stati ben superiori a quelli erroneamente attribuiti al sistema elettorale proporzionale. Ad un certo punto una corrente che denunciava i guasti della partitocrazia ha creduto di individuare prima nel sistema delle preferenze e poi nella proporzionale in quanto tale la principale responsabile dell’esasperata ricerca di consenso particolaristico e clientelare.

Il 18 e il 19 aprile 1993 l’elevato afflusso alle urne degli italiani (circa il 77%) e il successo di tutti gli otto quesiti costituiva una svolta di notevolissima importanza: con l’abrogazione della legge elettorale del Senato veniva doppiato il successo che si era avuto nel 1991 con il voto per la preferenza unica, rovesciando il principio proporzionalistico a favore di quello maggioritario.

L’Italia è dunque andata in controtendenza in Europa dove la netta prevalenza del sistema elettorale proporzionale si integra bene con l’assetto complessivo delle democrazie negoziali. Cioè in Europa ci sono meccanismi elettorali proporzionali, assetti multipartitici ed eterogeneità delle coalizioni senza che ciò necessariamente alimenti alta instabilità dei governi e peggiori performance delle politiche, con difesa diffusa di interessi particolaristici.

Il vero nodo che fa la differenza è il grado di responsabilizzazione delle principali forze politiche e sindacali. Invece in Italia i sostenitori della democrazia maggioritaria hanno creduto di individuare nella legge proporzionale la matrice principale dei mali della politica italiana, oltre che nei partiti, ai quali pure non sono state risparmiate critiche.

La stagione maggioritaria si è rivelata un fallimento o una illusione e quindi tanto varrebbe oggi ritornare a un sistema proporzionale che consenta  di spazzare via la stagione inconcludente delle “coalizioni”, vere accozzaglie opportuniste messe su per ottenere consenso e poi non in grado di governare a causa delle loro differenze. Ma fatta la riforma elettorale, occorre che un partito abbia una sua identità. E un suo programma che non sia la cambiale in bianco che propinano oggi: promesse per procacciarsi voti dalle categorie e poi al governo realismo indispensabile per non mandare a fallimento uno stato che si finanzia a debito.

Nella storia dell’otto-novecento tutti gli intellettuali che hanno criticato i meccanismi della democrazia liberale sono stati  influenzati da varie ideologie, che, a destra, sostenevano l’idea dell’uomo forte e, a sinistra, mitizzavano il popolo; molte di esse legate dal culto della violenza. La storia italiana è un buon paradigma di questa oscillazione tra uomo forte e popolo che nel terzo millennio, dopo la globalizzazione e il neoliberismo, ha sembrato con il populismo di destra e sinistra aver trovato una soluzione intermedia. Il populismo infatti unisce la personalizzazione della politica, come vedremo inevitabile nell’epoca delle comunicazioni di massa, con soluzioni semplici per problemi complessi.

Spazzate via dal vento della storia le grandi ideologie, il partito personale con i suoi slogan accattivanti collega l’uomo forte con il suo popolo attraverso l’uso congiunto di media e social che altro non è se non la trasformazione tecnologica della vecchia propaganda dei raduni di massa con la folla adorante il duce.

Se una volta si poteva entrare in contatto solo in presenza e de visu, e oggi attraverso uno schermo, è chiaro come i movimenti politici mentre prima dovevano essere presenti sul territorio oggi devono riuscire ad impostare una efficace comunicazione social e sul web. Quel che è avvenuto ai giornali di carta per larga parte trasferiti on line, riguarda anche la politica e il suo meccanismo di funzionamento. Solo che ogni nuovo mezzo non distrugge ma si aggiunge e coesiste con il precedente, come ha fatto la televisione con la radio, l’ebook con il libro, Netflix con il cinema. Anche la politica sul territorio continuerà a coesistere con la politica “simbolica” social e televisiva.

L’indebolimento dei partiti e la personalizzazione della leadership non sono una peculiarità italiana, ma da noi hanno assunto un carattere più rapido e più radicale. D’altra parte l’influenza di una forte vena di critica ai partiti è da noi presente sin dagli anni Sessanta tra i sostenitori della democrazia maggioritaria, e quindi trenta anni dopo, sotto l’effetto di Tangentopoli,  ha trovato anche ampia eco nel dibattito pubblico, nella stampa, e più in generale nell’opinione pubblica. Il libro “La casta” (di Rizzo e Stella) è del 2007.

Le forze populiste, dalla Lega ai Cinque Stelle, sono nate sulla spinta della critica verso i partiti e l’ establishment, ma il loro precursore fu Silvio Berlusconi con la sua «discesa in campo». Doveva riempire il vuoto creatosi con la scomparsa repentina dei principali partiti (per i suoi interessi doveva colmare il venir meno della protezione craxiana).

Dopo Berlusconi, le altre forze sono infatti state costrette a fare rapidamente i conti con modalità nuove di fare politica per trovare consenso. Da qui una spinta all’ulteriore indebolimento delle forme organizzative tradizionali e alla contestuale crescita della personalizzazione della leadership, che investirà anche il principale competitore del partito berlusconiano, cioè il partito democratico (si consideri, per esempio, l’introduzione delle «primarie aperte», una vera particolarità nel contesto europeo), e raggiungerà il suo apice con l’affermazione di Matteo Renzi.

Non a caso per entrambi questi leader si è usata la formula del «partito personale», anche se essa si adatta certo di più alla formazione creata da Berlusconi. Ovunque nel mondo, la personalizzazione della leadership si accompagna alla crescente influenza dei media nella comunicazione politica. Ma in Italia è stata particolarmente forte la spinta verso una politica simbolica sempre più gridata sulla ribalta mediatica, studiata e comunicata con il marketing politico per attrarre l’attenzione degli elettori (è rimasta famosa la Bestia di Salvini, la fabbrica di popolarità social della Lega ideata da Luca Morisi). Da qui l’uso crescente delle tecniche di marketing per individuare gli slogan e le immagini dei candidati più adatti a stimolare il riconoscimento del leader come «uno di noi».

In questo modo, si cerca anche di distrarre gli elettori da ciò che avviene dietro le quinte, dove prende forma il rapporto vero con gli interessi. Le difficoltà di misurarsi efficacemente, dietro le quinte, con il pesante fardello del passato spingono le nuove leadership personali a cercare un accomodamento capace di portare consenso immediato a breve, attraverso incentivi, agevolazioni, deroghe, condoni, concessioni, sussidi di varia natura. Misure in genere di scarsa efficacia – o peggio che aumentano il costo per le finanze pubbliche e la frammentazione – ma utilissime per stabilire un rapporto di scambio con gli interessi frammentati o con le élite locali e regionali che portano appunto un rapido consenso personalizzato. Nel frattempo, i problemi e le tendenze di crisi si aggravavano.

La personalizzazione della politica e la trasformazione-dissolvimento dei partiti ha portato al “declino” dei partiti di sinistra. Dal 2000 al 2020 i principali partiti di sinistra hanno subito un tracollo del 20% in Germania e in Francia, mentre hanno perso il 12-13% dei voti in Paesi come l’Italia. Inoltre, si è riscontrato un importante cambiamento nella composizione sociale del loro elettorato: il peso del voto dei “salariati” è scivolato da picchi del 50% a minimi del 30%, mentre i voti provenienti dal “ceto medio” sono aumentati dal 40% al 65%.
Come spiegare sinteticamente questo fenomeno?

«Il dilemma dei partiti socialisti può essere formulato nei termini seguenti. Se essi vogliono governare, devono estendere il loro appello verso un elettorato di ceto medio. Ma quanto più intraprendono questa via, tanto più devono ridurre gli impegni redistributivi, perché i ceti medi sono in prevalenza ostili a questi interventi che richiedono una più elevata tassazione. Essi rischiano quindi di perdere consenso tra le classi sociali che hanno costituito le loro basi elettorali originarie e che fondano sulle aspettative di politiche redistributive il loro consenso: la classe operaia dell’industria (in declino), una parte non trascurabile di lavoratori autonomi, ma anche i nuovi salariati dei servizi a bassa qualificazione. Questi gruppi lasciano i partiti di sinistra, o più spesso non vi si sono avvicinati neanche in precedenza» (Carlo Trigilia, La sfida delle disuguaglianze, il Mulino, 2022).

Il processo di personalizzazione della politica sembra ormai inarrestabile e anche la Schlein, la quale ha conquistato il pd senza neppure esservi iscritta e grazie alla cooptazione del vero capo, Franceschini, oltre che dei maggiori responsabili della sua decadenza (Bettini, Zingaretti, Boccia, Provenzano…), sta ormai formando un suo partito personale.

Non esiste più il pd, ma il pd di Schlein, come prima è esistito il partito di Renzi, o quello di Bersani o di Zingaretti o di Letta. La personalizzazione della politica è fenomeno che è sempre esistito, anche quando vi erano i grandi partiti di massa e le ideologie (non a caso la dc camminava sulle gambe dei suoi leader, come i liberali di Malagodi, i socialisti di Nenni, i comunisti di Gramsci e Togliatti). Altra cosa è il “partito personale” che è la conseguenza del venir meno delle grandi “visioni del mondo” e rappresenta la politica declinata attraverso le “issues” (problemi), per cui Veltroni è il partito a vocazione maggioritaria, Renzi la rottamazione, Conte l’avvocato del populismo, Bossi il separatismo.

Due parole, in inglese, Policy and Politics, anche se in apparenza simili, hanno significati molto diversi.

Policy è la ricerca di una via razionale per risolvere problemi complessi che coinvolgono società, economia e tecnologia.

Politics è la ricerca di consensi popolari, e la loro aggregazione verso soluzioni che siano accettate anche se non necessariamente ottimali.

In Italiano abbiamo una parola sola: la Politica che va direttamente alla Politics, dove ‘credo’ e filosofie diverse finiscono spesso per essere un dato a priori e che finisce per mettere in seconda linea la Policy. Si mescolano valori ed interessi e si piega la razionalità all’esercizio puro e semplice di un potere spesso solo ideologico.

La leadership personale che si affida al potere carismatico può suscitare entusiasmi ma è «labile». Così, mentre la politica degli interessi si svolge dietro le quinte, privilegiando inevitabilmente quelli più forti, la politica simbolica e il marketing dominano la ribalta mediatica, con un ampio ricorso alla dimensione demagogica per dimostrare agli occhi degli elettori le proprie qualità personali (un rischio di degenerazione «demagogica» della personalizzazione della leadership sul quale ha anche attirato l’attenzione Max Weber).

I media si rivelano da questo punto di vista un’arma a doppio taglio per i leader, perché li aiutano a emergere e a farsi riconoscere, ma allo stesso tempo li sovraespongono quando si sono affermati. Ne è in un certo senso la riprova lo stesso successo maggiore, anche in chiave comparata, che hanno avuto in Italia le formazioni di tipo populistico, come Cinque Stelle e Lega, precedute da Forza Italia, portatrici – in forme diverse – di un messaggio «antipolitico» fortemente critico verso le promesse mancate che ha trovato ampia eco nell’elettorato (si tenga presente che la forza elettorale di formazioni politiche riconducibili al variegato universo populista raccoglie in Italia oltre il 50% dei consensi: un primato in Europa).

La stagione del Movimento 5 Stelle come primo partito del Paese e della Lega al 40 per cento sulle spiagge romagnole è finita da un pezzo, ma non ci siamo mai davvero liberati del populismo, soprattutto in economia. L’idea di proporre soluzioni semplici a problemi complessi è un male della politica italiana fin dalla Prima Repubblica (se non addirittura dal Fascismo). La differenza è che oggi non è più possibile soddisfare tutti con il semplice clientelismo, perché lo spazio di manovra economica del Governo si è estremamente ridotto, sia a causa delle regole europee, sia, soprattutto, per l’enorme debito pubblico che ci troviamo a gestire, eredità di politiche demagogiche ormai insostenibili. (Massimo Taddei)