La Calabria e i calabresi di “The good mothers”

Era dal 2014, dopo il film “Anime nere” di Francesco Munzi, anzi dal 1992 quando Carlo Carlei con “La corsa dell’innocente” raccontò la fuga disperata di Vito, un ragazzino di 10 anni, che non vedevo più al cinema la Calabria vera. Devo aggiungere anche “Le quattro volte” (2010) di Michelangelo Frammartino, è doveroso. L’ho rivista in tv, in una serie italobritannica in sei puntate (su Disney+). Non intendo recensirla perchè vorrei solo dichiararla imperdibile. Ma non per il contenuto al quale accennerò fra poco, ma per come è fatta. Cinema potente visto in tv, con attrici italiane da Oscar, da Micaela Ramazzotti a Gaia Girace, Barbara Chichiarelli, Valentina Bellè, Simona Distefano. Poi i maschi, attori calabresi come Francesco Colella, in un’opera finanziata ( e ne dovremmo essere orgogliosi) da Calabria Film Commission che ha consentito di girare per 6 settimane in Calabria. Alla base dell’operazione il libro del giornalista Alex Perry con la regia di Julian Jarrold ed Elisa Amoroso. “Certe famiglie infelici sono infelici allo stesso modo. Quelle di Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, ad esempio”. Tre donne che si sono ribellate alla cultura tribale della ‘ndrangheta.

Hanno chiesto a Perry: Cosa l’ha colpita di più della Calabria?

Non mi ci ero mai fermato prima, nonostante un viaggio di nozze in Italia e visite in Sicilia. Credo che anche parecchi italiani ci passino soltanto e la trovavo affascinante perché è un posto bello, selvaggio e anche a buon mercato. Però è anche un luogo, ancora dieci anni fa quando si svolgono i fatti, dove certe ragazze si sposano a tredici anni e a venti hanno già tre figli e rischiano di venire ammazzate solo perché hanno guardato un altro ragazzo. Non a caso un paio di pm intervistati hanno paragonato la cultura brutale, tribale della ‘ndrangheta, a quelle dell’Isis, di cui mi sto occupando per un nuovo libro. Il tutto a poche ore di auto dalla bellezza e sofisticazione di Roma!“.

Io sono stato sempre convinto che la mafia si capisce meglio con serie come ” I Soprano” piuttosto che con i film sul Padrino. La vita familiare, i rapporti padre e figli, intercettano la cultura tribale delle cosche, sulla quale sono stati capaci di costruire multinazionali finanziarie.  Spiegare ed indagare le attività di queste ultime fingendo che nelle loro case, nel loro privato, i mafiosi vivano con i valori del ceto medio benestante, significa non riuscire a metterli a fuoco.

Alex Perry ha scritto la storia basandosi sul lavoro investigativo di Alessandra Cerreti (nella serie si chiama Colace), magistrata siciliana che si fa mandare a Reggio Calabria a lavorare nella Direzione Antimafia con i leggendari Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino.

Ma, detto questo, c’è la Calabria ripresa come non l’abbiamo mai vista finora, ci sono attori che non ridicolizzano il nostro dialetto, c’è la capacità di inserire l’azione dentro il paesaggio, le case, gli ambienti. Quando si vede un film finanziato dalle varie Commission regionali (non parliamo poi della fiction Rai) i droni che sorvolano i paesaggi ormai non si contano più. Sono fiction con spot incorporati, Trentino e Puglie su tutte. Ecco, la Calabria di queste donne con un coraggio indomito finalmente ci appare vera e le sei puntate fanno soffrire per il pensiero martellante che tutto quanto purtroppo non è frutto della fantasia dello sceneggiatore Stephen Butchard.

Un’ultima raccomandazione: se leggerete o sentirete che in questa serie c’è la ‘ndrangheta folcloristica, ho cercato di spiegarvi perchè prima dovete vederla e poi magari capirete perchè non vado pazzo per la tarantella.