Zero matrimoni e un funerale/ Al Terzo polo adesso servirebbe un rottamatore, ma difficilmente lo troverà

Se il Terzo Polo fosse già un partito, a questo punto avrebbe bisogno di un rottamatore. Quale sia questo punto immagino lo sappiano tutti, ormai, dunque risparmierò al lettore la tragicomica sequenza di «lui ha detto così, ma poi ha fatto colà», «specchio riflesso» e «bacia la porta» con cui da giorni Carlo Calenda e Matteo Renzi allietano cronache e talk show, peraltro già di per sé non particolarmente ben disposti nei loro confronti.

Se non dico il Terzo Polo, ma almeno Azione e Italia viva fossero partiti veri, con una propria storia, precedente e indipendente dalle vicende personali degli attuali leader, sarebbe dunque il classico momento in cui una nuova leva di dirigenti dovrebbe farsi carico del compito di accompagnare entrambi i contendenti all’uscita, perlomeno dalle posizioni di vertice, sfidandoli apertamente e sconfiggendoli democraticamente in un regolare congresso. Ipotesi francamente assai azzardata.

Il punto è che Azione e Italia viva sono entrambi, di fatto, partiti personali, e la storia ha già abbondantemente dimostrato che i partiti personali sono sempre partiti mono-personali, legati mani e piedi al destino dei propri fondatori, indipendentemente dalla loro stessa volontà. Insomma, non si ereditano, non si acquistano e non si vendono. La loro leadership non è contendibile e non è nemmeno cedibile: è un bene inalienabile del leader-proprietario. E questo è probabilmente il motivo principale per cui non si possono neanche fondere (perché uno dei due leader dovrebbe a quel punto riconoscere, davvero, la leadership dell’altro).

Non per niente, l’unico caso censito di fusione tra due partiti che sia davvero riuscita, che abbia prodotto cioè un nuovo partito capace di durare più a lungo delle formazioni precedenti, raggiungendo percentuali pari o superiori alla loro somma, è quello del Partito democratico, nato dalla fusione di due partiti veri, Ds e Margherita, ciascuno con le proprie correnti e la propria dialettica interna.

Questo è il motivo per cui il Pd ha continuato a esistere anche dopo l’addio di Renzi, esattamente come ha fatto dopo l’addio di Pier Luigi Bersani, e prima ancora di Francesco Rutelli, mentre nessuno dei partiti fondati dai suddetti leader all’indomani della separazione ha lasciato alcuna traccia di sé (Italia viva è l’unico ancora ufficialmente, se non altro, in vita, ma è pure l’ultimo nato).

Il modo in cui le previsioni sul futuro di Forza Italia seguono le oscillazioni dei bollettini medici di Silvio Berlusconi è solo l’ultima conferma di questa regola. Eppure si tratta di un partito che ha ormai una storia quasi trentennale.

Partiti che hanno una storia, al massimo, tri o quadriennale, nati dall’impulso di un singolo leader e con lui totalmente identificati, difficilmente possono godere di maggiore vivacità interna. In questo genere di partiti o movimenti, da che mondo è mondo, chi non è d’accordo col capo ha poco da fare: o sta zitto o se ne va. O c’è davvero qualcuno convinto che Calenda, prima di prendere posizione con un tweet su tutti i principali temi di politica nazionale e internazionale, si faccia scrupolo di riunire un qualunque organo direttivo del suo partito, o che altrettanto faccia Renzi prima di inviare la sua newsletter?

Si dirà che questo vale oggi per tutti i leader di partito, e in una certa misura valeva anche prima che arrivassero internet, Twitter e la società del tempo reale (a dispetto di tanta retorica, non è che Enrico Berlinguer, prima di dichiarare al Corriere della sera di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato, avesse riunito la direzione per discuterne, e tantomeno lo aveva fatto Achille Occhetto prima delle sue clamorose dichiarazioni alla Bolognina). Si dirà pure che oggi la personalizzazione della politica e la natura sempre più leaderistica dei partiti sono caratteristiche dell’intero sistema e del mondo in cui viviamo.

Tutto vero, ma resta innegabile la distinzione tra partiti che all’occorrenza cambiano leader e leader che all’occorrenza cambiano partito. Per questo è difficile immaginare un radioso futuro per il Terzo polo, imprigionato com’è in un circolo vizioso politico e in un paradosso logico: per costruire davvero questo famoso partito unico avrebbe prima bisogno di una nuova leadership, ma per produrre nuove leadership avrebbe prima bisogno di un partito.