Lucio Battisti e Panella alle canzoni non è chiesto di dire ma solo di apparire

(11/6/2023) Lucio Battisti (1943-1998) muore il 9 settembre 1998 a soli 55 anni e dopo 25 anni viene ricordato, celebrato e commemorato solo per i tanti successi da hit parade sfornati in coppia con Mogol sino al 1980. Aveva 27 anni quando decise di non apparire più. Il più famoso cantante degli anni settanta non è riuscito ancora a trovare un Tornatore o un Martone che approfondiscano la sua personalità, per indicare due registi che hanno voluto, con un film, ricordare la grandezza e l’estro artistico di Morricone e Troisi.

Finora abbiamo visto in tv dei programmi costruiti con un collage delle sue apparizioni televisive intervallate da interviste a suoi amici e collaboratori. Ma la sua vita artistica sembra essere racchiusa in un unico periodo, durato 37 anni. Quello che ha fatto dai 37 ai 55 anni, in un lungo periodo durato 18 anni in cui senza “apparire” ha continuato a comporre musica e canzoni, è ancora avvolto nel mistero. E’ stato rimosso. I due periodi artistici di Battisti, quello pieno di successi commerciali e quello privo di successi, sono diventati uno solo come se l’artista ad un certo punto avesse perso la sua vena creativa.

Provando un ardito paragone pittorico, mentre Picasso, che per i suoi cambiamenti stilistici detti “periodi” viene ricordato per il suo periodo blu, poi quello rosa, poi quello africano e infine quello cubista, Battisti sembra ad un certo punto aver abbandonato il periodo delle “bionde trecce” per abbracciare il suo periodo cubista. Il periodo della discografia bianca che va dal 1998 al 1994, tutti i 5 album con la copertina bianca nati dalla collaborazione con Pasquale Panella, resta ancora sconosciuto ai più.

Qualche libro, qualche accenno in tv o sulla stampa, 40 canzoni sembrano essersi dissolte per il semplice fatto che sono circolate poco e il mercato, cioè il pubblico, non le ha assorbite. Con il cubismo Picasso e Braque ribaltano completamente tutte le regole dell’arte creata fino al quel momento. Con gli album bianchi Battisti si misura con testi che non raccontano più storie di amori vissuti o scompaginati o sofferti ma con parole il cui significato spesso sfugge sino a diventare semplici sonorità. Eppure in quegli album ci sono dei capolavori assoluti e, se per assurdo, le radio italiane oggi si mettessero d”accordo nel far ascoltare ripetutamente uno di quei brani, scommetto che il grande pubblico del 2023 scoprirebbe un tesoro di cui ignora l’esistenza.

Scrive Franco ZanettiAstratti, filosofici, a volte onirici: alcuni hanno paragonato i testi di Pasquale Panella per Lucio Battisti a esercizi formali di pura enigmistica, altri invece li hanno amati fin dal primo istante, nonostante quelle canzoni difficili da cantare, memorizzare e capire, sorta di negazione di un percorso fino ad allora lineare. Sono pochi gli autori che si sono azzardati ad analizzare le affinità elettive che avvicinarono Battisti a Panella per circa un decennio, da quel marzo del 1986 in cui “Don Giovanni” diede una lezione di modernità al sonnolento scenario della musica italiana.

Sono ormai trascorsi 25 anni dalla scomparsa di Battisti ma lui si era ritirato dalle scene (come Mina) nel 1970 e dieci anni dopo, nel 1980, ruppe il sodalizio con Mogol. La moglie Grazia Letizia Veronesi e il figlio Luca non hanno mai concesso una sola intervista, nessuno sa che faccia abbiano perchè non ci sono foto recenti, e sui giornali sono finiti per una guerra giudiziaria con Mogol che avrebbe voluto sfruttare commercialmente (per esempio per la pubblicità) un intero repertorio che aveva contribuito a creare.  Sembra che appena una ventina di persone abbiano presenziato ai funerali. C’era anche Mogol, che sui motivi della rottura ha detto: “Non fu una questione di soldi, ma di equità. Lui otteneva due terzi dei diritti e io un terzo. Chiesi di dividere in parti uguali. Sembrava d’accordo, ma il giorno dopo cambiò idea. Gli dissi che non avrei più lavorato con lui”.

La rottura avvenne per motivi di percentuali, in altri termini l’apporto di ciascuno all’ottenimento del successo commerciale. Mogol e tutti i suoi ammiratori (quelli che lo considerano poeta non paroliere) pensano che i capolavori di Battisti siano dovuti alla musica di Lucio e alle parole di Mogol in parti uguali. Lucio ed altri come me pensano che quei capolavori appartenessero al musicista per due terzi, per il semplice fatto, a tutti evidente, che se così non fosse non si capirebbe per quale motivo amiamo i Beatles e tutta la discografia non italiana. Una canzone, di Dylan o di Eminem, degli Stones o di Springsteen, ci piace anche se non comprendiamo i testi, il suo contenuto. Soltanto in Italia, non a caso patria dei cantautori, il testo delle canzonette ha assunto un’importanza eccezionale, agli occhi dei critici, e Lucio Battisti ne ha fatto le spese durante l’intera sua vicenda artistica. Per questa particolare connotazione culturale italiana, nel ’68 venne contestato perchè i suoi testi parlavano d’amore, e poi nel periodo bianco perchè i suoi testi erano indecifrabili.

Erano anni in cui la canzone d’impegno politico e sociale imperversava, e cantare “le bionde trecce gli occhi azzurri e poi, le tue calzette rosse” non godeva dello stesso credito, presso l’intellighenzia culturale del tempo rispetto a comporre versi come “contro i re e i tiranni scoppiava nella via la bomba proletaria, e illuminava l’aria la fiaccola dell’anarchia”. (Zanetti)

L’ ultima dichiarazione pubblica del maggiore genio musicale italiano di musica pop a rileggerla oggi è chiara, coraggiosa, ma soprattutto è il proposito di mettersi alla prova, di uscire dalla comfort zone e di tentare strade nuove: «Tutto mi spinge verso una totale ridefinizione della mia attività professionale. In breve tempo ho conseguito un successo di pubblico ragguardevole. Per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mète artistiche, di nuovi stimoli professionali: devo distruggere l’immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L’artista non esiste. Esiste la sua arte»

Ho sempre pensato che se il caso avesse dato a Battisti la possibilità di lavorare con parolieri come Calabresi, Bardotti, De Gregori, non avrebbe subìto “l’immagine squallida e consumistica” di cui si lamentava. In Italia è stata fruttuosa l’alchimia tra testi e canto di De Andrè e musica della Pfm o dei New Trolls. Non è stato possibile l’incontro inverso, tra la musica di Battisti e i testi di un cantautore.

La gallina, coccodè
Spaventata in mezzo all’aia
Fra le vigne e i cavolfiori mi sfuggiva gaia

Nel 1972 il poeta Mogol gli sfornava poesie del genere, eppure il loro metodo di lavoro era sperimentato: Battisti portava le musiche e Mogol sceglieva il brano sul quale lavorare per aggiungere il testo. Un esperto di musica come il direttore de Linkiesta, Christian Rocca, è stato molto diretto: Prendete le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi, sapete cosa? buttatele nel mare nero o nell’acqua azzurra, acqua chiara o dove l’acqua è più blu o magari dai capelli verderame. Non importa. È chiaro e trasparente il mio punto: il Lucio Battisti migliore è quello misconosciuto, quello invenduto, quello non cantato in spiaggia, quello senza discese ardite né risalite. Quello dei cinque dischi scritti con Pasquale Panella. Quello con i testi comprensibilmente incomprensibili, o viceversa. E voi ve lo siete perso. Certo. Capisco. E’ più facile canticchiare <come può uno scoglio/arginare il mare> piuttosto che <assumi pose inesplose/e non ti pungi più/non fai più la raccolta/ di incanti ardenti ed arsi>. Ma se volete capire perché Battisti decise di abbandonare le scene, dovete rivolgervi a Panella: <Che ozio nella tournee/di mai più tornare/nell’intronata routine/del cantar leggero>. Chiaro, no? S’era rotto le scatole della musica leggera di cui era il campione.

Ho sempre considerata vera una semplice battuta che una volta Gianni Boncompagni fece sul sodalizio Battisti-Panella. “Dio li fa e poi li accoppia“. A parer mio è proprio così, è andata proprio così, e quel che è successo in questi 25 anni lo dimostra senza alcun dubbio. Boncompagni oltre che sodale di Arbore è stato un grande inventore di canzonette, di successi commerciali, basti pensare a quelli della Carrà. Vedete, i soldi non li disdegna nessuno nel mondo, ma ci sono delle persone che ne fanno l’asse terrestre della loro vita. Boncompagni forse è uno di questi e ai suoi occhi (che poi sono quelli di uno che sfornava canzonette ma anche si mise a fare trading in borsa con buoni risultati) uno come Lucio che smette di comporre per la hit parade e canta i testi di Panella è uscito fuori di testa.

La rottura Mogol-Battisti, ma anche la controversia Eredi Battisti/Mogol, sono, ripetiamo, in apparenza questione di soldi, ma resta il fatto oggettivo che uno parsimonioso ( così testimoniano gli amici) come Lucio ad un certo punto smise di sfornare canzonette da cantare sulla spiaggia intorno ad un falò e pubblicò album che vendettero molto poco. Chiunque sa che avrebbe potuto andare avanti per decenni a sfornare hit, per sè e per altri, senza soluzione di continuità. Invece ad un certo punto della sua vita sembra deciso a dimostrare che avrebbe potuto musicare finanche l’elenco telefonico. Datemi un testo qualsiasi e ci faccio una canzone. In questo proposito c’è un aspetto particolare dell’uomo Battisti che non è riconducibile allo “sperimentatore” o all’avanguardista tirato in ballo da vari interpreti. Tutti noi conosciamo persone che spesso si “fissano”. In una bellissima serie tv, Malcom, l’attore Bryan Cranston vestiva i panni di Hal, padre del protagonista, il quale spesso e volentieri cominciava a coltivare delle vere e proprie fissazioni con inevitabili risultati divertenti.

C’è chi ad un certo punto si fissa con le diete, oppure con l’esercizio fisico, chi scopre gli scacchi, oppure il ballo, chi scopre il trekking o Beethoven e così via. Tutti i nostri hobby diventano presto o tardi delle fissazioni, delle coazioni a ripetere, e tutti quelli che hanno conosciuto Battisti testimoniano che lui era proprio fatto così. Per esempio aveva amato in una certa fase le immersioni subacquee, oppure si era appassionato alla filosofia, o alla elettronica, o alla informatica, sempre partendo da zero, cioè coltivando questi nuovi interessi in maniera profonda o forse ossessiva-compulsiva. Il suo carattere, o la sua natura, certamente curiosa, erano questi. Per ciascuno di noi voler approfondire una tecnica attraverso la pratica di migliaia di tentativi è una fissazione che parte come hobby o passatempo e diventa, attraverso il prova e riprova, una sorta di lavoro incessante e interminabile, alla ricerca di una inarrivabile perfezione. Battisti ha cominciato questa ricerca della perfezione artistica prima suonando la chitarra e poi via via diventando un polistrumentista, ascoltando migliaia di dischi anglosassoni per capire la “forma canzone” e approfondire le differenze dei generi, sino a diventare un mago degli arrangiamenti e della sala di registrazione, dopo aver appreso che non basta suonare e cantare benissimo ma il prodotto finito si forgia con tutte le diavolerie e gli strumenti presenti in uno studio tecnologico.

Insomma, prima ha voluto capire come si diventa Paul Mc Cartney e poi cosa facesse il quinto beatle, il produttore George Martin (1926-2016), alla console (si ascolti “Registrazione” dell’album “E già” scritto nel 1982 con i testi della moglie). Il produttore londinese, per dire, non solo suonò delle parti strumentali in alcuni brani dei Beatles, ma ne fu il demiurgo, l’architetto supremo. “Rallentandole, velocizzandole, manipolandole con i distorsori, i delay, gli echi, i riverberi, ricomponendole con i nastri, come tante tessere di quel meraviglioso mosaico su cui è stata edificata la pop music contemporanea”. Per dare qualche piccolo esempio, a lui si devono l’arrangiamento classicheggiante di “Eleanor Rigby” (l’unico successo rock senza gli strumenti tipici del rock, basso, chitarra e batteria), tutta la parte orchestrale di “Yesterday”, il meraviglioso accordo iniziale di “A Hard Day’s Night”.

Tutte queste “ossessioni” di Battisti, che sono profondamente umane e appartengono alla vita di ciascuno di noi, sono state ingenuamente catalogate come il periodo “sperimentale” del cantautore di Poggio Bustone. Insomma, per sintetizzare, il guardare fuori dall’Italia (Lucio ha anche vissuto a lungo a Londra), il non voler essere provinciale e voler uscire fuori dal proprio recinto, sono stati etichettati come sperimentalismo. Comunque sia, ad un certo punto ha abbandonato la sua miniera d’oro per inoltrarsi su terre sconosciute.

Pasquale Panella (Roma, 12/1/1950)

LA CANZONE SINCERA NON E’ SARTORIALE. NON PUOI INFILARE LE BRACCIA IN UNA NUVOLA (P. Panella) In questa svolta del percorso, ecco il caso e il destino, incrocia uno più o meno come lui, Pasquale Panella detto Lino, che è nato a Roma il 12 gennaio 1950, un mio coetaneo, per svelare ciò che ci unisce. Il trait d’ union è un amico di Lucio, Adriano Pappalardo, col quale Lino sta lavorando. Siamo nel 1983 e Battisti sta producendo l’album di Pappalardo Oh! Era ora. Con lo pseudonimo di Vanera, Panella firma i testi. Non è il suo solo pseudonimo, altre volte si è firmato Duchesca e Vanda Di Paolo, e ha collaborato con altri cantanti. Molto con Enzo Carella, ma ha scritto per Mango, Zucchero, Mina, Anna Oxa, Marcella Bella, Branduardi e altri. Con Minghi sforna Vattene amore (1990, terzo posto a Sanremo) che cantata con Mietta è rimasta celebre per “Magari ti chiamerò/Trottolino Amoroso, Dudu dadadà/Ed il tuo nome sarà/Il nome di ogni città.” Con Riccardo Cocciante ha collaborato per opere monumentali quali Notre–Dame de Paris e Romeo e Giulietta.

Maestro elementare (sia pure per poco), come la mamma, Panella è sposato, ha un figlio, è grande tifoso di Totti e della Roma, ed è come Lucio. Non gli interessano i soldi ed è molto riservato. In tanti anni ho letto soltanto una sua intervista, che tra poco saccheggerò, insomma è l’esatto contrario di Mogol. Mentre Battisti è stato certamente amico di Giulio Rapetti, in arte poeta o Mogol, il suo rapporto con Panella non si conosce quale sia stato. Lino non ha mai parlato dell’uomo Battisti, mentre Mogol non smette di raccontare, anzi ha più volte affermato di aver scritto per lui post mortem dopo un sua apparizione misteriosa il brano L’arcobaleno, cantato da Celentano. L’album Don Giovanni (1986) sarà l’unico dei cinque in cui Panella scrive i testi sulla musica composta da Battisti, perché per i restanti quattro avviene l’esatto contrario. Da questi particolari si può ipotizzare che i due sodali abbiano potuto lavorare insieme senza neppure incontrarsi o frequentarsi, a distanza, due linee parallele che non si incontrano mai eppure creano senza conoscersi e dialogare dei capolavori ancora sconosciuti al grande pubblico anche se molto amati da pochi ammiratori.

La parabola artistica di Battisti può quindi essere collocata, assumendo la prospettiva di tanti “critici illuminati” (voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, per dirla alla Guccini), in un ponte che collega le sue canzoni di destra perchè troppo commerciali rispetto a quelle dei grandi cantautori dell’epoca e le canzoni enigmatiche del periodo bianco. Canzoni che possono piacere giusto a Christian Rocca e al semiologo Stefano Bartezzaghi, enigmista e cultore del poeta-paroliere romano. Qualcuno, certo, ricorda di tanto in tanto le parole di David Bowie, che lo definì il migliore in assoluto. Oppure le parole di Geoff Westley che nel 1977 cominciò con il disco Una donna per amico a collaborare con lui dopo aver lavorato per alcuni anni con i Bee Gees. Purtroppo, ecco cosa voglio dire, il meno provinciale dei musicisti italiani non ha avuto nessun eco internazionale, e basti pensare che lo sbarco in America fu (anche) condizionato dalle pretese di Mogol di voler vedere i suoi testi tradotti quasi alla lettera. Il genio di Battisti è rimasto misconosciuto, perchè in Italia al suo stile nazional-popolare gli contrapponevano i cantautori e all’estero non lo hanno in pratica conosciuto. Avrebbe avuto bisogno di un produttore come Corrado Rustici, un italiano che conosce il mercato d’oltreoceano e che ha saputo lanciare finanche il replicante Zucchero, un nome che non faccio a caso perchè Fornaciari ebbe un periodo in cui volle imitare pedissequamente, voce musica e testi, Battisti.

Come ha ben scritto Federico Magi (L’epopea Battisti-Panella: l’ultima avanguardia della musica italiana, in Il pensiero storico) “Battisti-Panella resta dunque l’ultima vera avanguardia dell’Italia in musica, l’ultimo atto rivoluzionario di un artista che, a dispetto di ciò che sentenziò la vulgata ufficiale, rivoluzionario – come artista – lo fu sempre, anche al tempo del connubio con Mogol… Il culmine della parabola umana e artistica del musicista reatino fu riuscire a spersonalizzarsi, diventare una sorta di ologramma, per poi evaporare del tutto lasciando traccia di sé solo attraverso la musica. Così volle, ed è giusto che sia ricordato e celebrato Lucio Battisti. Perché «l’artista non esiste. Esiste la sua arte».

Solo che sul concetto di “avanguardia” lo stesso Panella ha avuto modo di precisare: “Con Minghi ho fatto vera sperimentazione. Esiste la catena espressiva delle prevedibilità: la città vuota, il cane che abbaia. Ovvietà. “Binario, triste e solitario”. La bravura sta nel non usare quelle espressioni. Con Minghi, data la potenza melodrammatica della sua musica, dovevo sperimentalmente lavorare intorno alle strutture della scrittura sentimentale. Quella di Minghi è bella musica. (l’intervista su Rolling Stone è di Gianmarco Aimi, 30/3/2020)
A proposito di danaro. A quel tempo, la mia vita era pagata da La vita mia di Minghi. Battisti non produceva nulla, poca roba. Sarei morto di fame. Non c’erano tv, radio, spettacoli per quei brani. I dischi sono una porzione dell’intero. Minghi con una serata mi dava un anno di Battisti. E pensare che era stato annunciato come un fallimento. Invece quel rischio sperimentale ha pagato. Con Battisti non ero sperimentale, soprattutto dal secondo disco li scrivevo in una settimana. Ma perché mi fermavo, sennò ci avrei messo un giorno”. In buona sostanza, lo stesso Panella contesta l’assunto che i dischi con Battisti siano sperimentali.

Il pensiero di Mogol, espresso in un’altra intervista di Gianmarco Aimi, è invece il seguente: Con me Battisti componeva le musiche e io scrivevo le parole. Con Panella, Lucio si faceva mandare i testi e ci componeva intorno le musiche. Ma perché, gli chiesi un giorno, visto che la maggior parte sono testi nonsense? E lui mi rispose: “Avevo una scelta, o cantavo il nonsense o in inglese. Ho preferito il nonsense”. E come mai? “Perché non volevo che le paragonassero alle nostre”.

Ammettiamo pure che Battisti abbia detto le esatte parole ricordate da Mogol. Non c’è motivo per non ritenerle vere. Ma, se si tratta di fare paragoni, banalmente, si possono paragonare mele con pere, e non liquori con mele.

Quello che vorrei chiarire è dunque se i testi di Panella sono nonsense, come dice Mogol. In italiano non senso è sinonimo di “sciocchezza”, ma ammettiamo pure che Mogol definisca così la cripticità dei testi. Nel 1986, nell’album “Don Giovanni”, il brano Le cose che pensano “ci catapulta d’immediato nell’universo estetico e immaginifico di Pasquale Panella”:

«In nessun luogo andai / per niente ti pensai / e nulla ti mandai / per mio ricordo / Sul bordo m’affacciai / d’abissi belli assai / Su un dolce a sdraio / amore ti ignorai / invece costeggiai / i lungomai».

Qui altro che “nonsenso”, c’è una poetica, a mio personale parere c’è il divertimento di destrutturare la canzone cantautorale, triste e piangente, lamentosa, attraverso l’uso di neologismi, di giochi di parole, di iperboli. Piuttosto sono le canzonette italiane ad esser tutte costruite sul non senso. Per fare un solo esempio, prendiamo un brano qualunque, questo è di Antonacci.

Ma quanto tempo e ancora ti fai sentire dentro
Quanto tempo e ancora rimbalzi tra i miei sensi
Quanto tempo e ancora ti metti proprio al centro
Quanto tempo e ancora mi viene da star male e sento

Quale significato plausibile è possibile ricavare da tante canzoni italiane uguali a queste dove i versi vanno a caccia di tronche e rime? E lo stesso Mogol, quante volte a modo suo con Battisti ha tentato di fare l’ermetico? Per es., ne Il mio caro angelo

Cattedrali oscurano
Le bianche ali, bianche non sembran più
Ma le nostre aspirazioni il buio filtrano
Traccianti luminose gli additano il blu

E’ un nonsenso o ermetico il Panella dell’ultimo disco bianco, Hegel (1994), uscito quattro anni prima della morte del cantautore reatino? Il sodalizio con Panella è finito e il brano Estetica lo spiega a suo modo, a chi intende capire:

«È successo quello che doveva succedere / ci siamo addormentati, perché è venuto il sonno / a fare il nostro periodico ritratto / e per somigliarci a noi / più che noi stessi, ci vuole fermi / che appena respiriamo / e mobili ogni tanto / come un tratto / sicuro di matita. Ecco che siamo / la viva immagine di una / distilleria abusiva che / goccia a goccia / secerne puro spirito».

Ad un certo punto ci siamo annoiati, sembrano dirci Battisti e Panella. E’ così indecifrabile?

Se fosse vissuto di più, Battisti avrebbe composto con altri, e dopo Panella ha composto altri brani senza pubblicarli? I familiari di certo dopo la sua scomparsa hanno fatto quello che lui avrebbe voluto che facessero. Se ha scritto altre canzoni evidentemente Lucio non voleva che fossero pubblicate. Se lo avesse voluto, che ragione c’era per non accontentarlo?

Alexandre Ciarla, autore ad oggi dell’unica opera letteraria (Battisti-Panella. Da Don Giovanni a Hegel, 2015) che tenta un’esegesi delle quaranta canzoni contenute nei cinque dischi del duo, con il suo fondamentale libro dimostra quanto anche nell’editoria non sia presente alcun testo critico sugli anni di Battisti con Panella. Un periodo, una collaborazione, che non interessa nessuno, compresi artisti, intellettuali o addetti ai lavori. Insomma, la storia, è vero, la raccontano i vincitori, e quindi la storia artistica di Battisti (così come quella di Panella) la raccontano, rievocano, spiegano giusto Mogol e i suoi fedelissimi. La storia dunque appare come la vicenda di due folli che ad un certo punto si ri-trovarono in quel di Roma (Panella è nato a Centocelle), e produssero una quarantina di canzoni che non hanno lasciato traccia per l’ermetismo dei testi, lo spirito avanguardistico e la freddezza della musica elettronica.

Tutte le canzoni che Panella ha scritto con Battisti parlano della canzone. Ogni canzone tende a smascherare se stessa. Sono una decostruzione fenomenologica della canzone. Non vogliono più narrare il vivere dal vero (le nostre vite a raccontarle sono tutte uguali e mediocri). Interessarsi alle vite è noioso perchè le nostre vite sono noiose. Lo stile di Panella non è fatto di aneddotica sentimentale ma di “divagazione” e “voli” di fantasia. I suoi testi complessi non si possono cantare, e rendono impossibile al pubblico di immedesimarsi nell’io cantante, il quale a sua volta altro non è se non un attaccapanni sopra il quale l’autore mette un personaggio. Panella rinuncia a descrivere, come fa Mogol, una cronologia di fatti. Non racconta più accadimenti ma riflette su cosa sia la canzone, prendendosi gioco del cantante, dell’autore e del pubblico dei dischi. Con i suoi giochi di parole egli fa sbandare e fa andare fuori strada anche la comprensione. L’autore non bada più al contenuto (alla sostanza del senso) ma alle assonanze e ai giochi di parole, alla forma (alla superficie del linguaggio) (A. Ciarla)

(Panella) “È tutto vero. Ecco perché non capiscono cosa io stia dicendo. La gente non concepisce ciò che è vero. Più ci si avvicina al vero e meno è comprensibile. Non come i cantautori, con le loro stupidaggini più o meno engagé: “La locomotiva…” delle cose da ridere. Oppure le poesiole con le rimucce. Letto Pascoli hai letto tutto. Lui ha risolto la rima meravigliosamente e se vogliamo un po’ Carducci. Quello che ho scritto è il mio quotidiano”.

La gente, ci ha spiegato Panella, non capisce cosa lui stia dicendo. Ma pensa invece di capire cosa dicono i cantautori o le poesiole con le rimucce. Ogni anno, vorrei aggiungere io, prima di Sanremo ci sono paginate di giornali per spiegare in anteprima i testi idioti delle canzoni selezionate per Sanremo. Articoli su articoli sul nulla.

«Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere», sentenziava Ludwig Wittgenstein nella proposizione più celebre del Tractatus logico-philosophicus. Ha raccontato Panella:…quando a scuola sono incocciato in una battuta del genere immediatamente ho capito: un giorno tutto questo lo commetterò! Cioè commetterò dei testi di cui non si potrà parlare. Come mai? Perché di questi testi non si può dire. Si dicono essi, è semplice.

“Le cose che dicono”, appunto. Ecco in due righe spiegata la poetica di Panella. E’ quello che è successo veramente in Italia, di quei testi non ha parlato nessuno, giovani e vecchi, analfabeti e istruiti, intellettuali e gente comune. Qualche conventicola, forse, ma niente che sia confluito nel discorso pubblico.

Ci sono brani di Battisti-Panella che semplicemente non sono conosciuti dal pubblico. Prendiamo il brano Allontanando contenuto nell’album  L’apparenza (1988). Di cosa parla? Non è importante. Non è importante di cosa parla perchè il ritornello che ci si imprime in testa è proprio ” di che parliamo?”.

E poi
Di che parliamo?
Di come per favore hai fatto
Se non ti dispiace replicarlo
Quel gesto quell’insieme
Di cose e di non cose
Che accadono una volta
E quindi possono
Ripetersi a richiesta e non per caso

Lino Panella ha spiegato nell’intervista a Rolling Stone che per lui non c’è differenza tra i testi per canzoni, per il teatro o gli articoli. Come nella meccanica delle acque: tutto confluisce. La pagina è l’eterno. Il per sempre. È una struggente perfidia, come gli amori estremi. Sarà ascoltata come una canzone. E ti fa godere. Crederanno che è solo una canzone, senza cogliere quelle piccole secretazioni, quei secrétaire. Cosa significa? Significa che per lui i testi cantati non sono testi cantati. Sono testi scritti. Quei testi, musicati e cantati da Battisti, sono il suo romanzo, la sua biografia. E’ l’unico punto di contatto tra Panella e Mogol: entrambi hanno scritto per Lucio testi autobiografici. Così Lucio è apparso come Cristiano, che aveva Cyrano alle spalle per suggerirgli cosa dire.

Panella, che giura di leggere pochissimo e di non ascoltare musica e canzoni, afferma: “la scrittura non va letta. Io per esempio non andrei letto, andrei visto. La scrittura appare. La gente ti legge, ti compulsa. Ma la scrittura è apparizione. Laddove non è apparizione è inganno. In questo era bravo Borges. Non appare, inganna”.

Battisti, che ad un certo punto ha deciso di non apparire più, ha quindi collaborato con uno per il quale la scrittura è apparizione. Ma c’è molto di più, Panella su Lucio non sa dire nulla e non ha detto nulla dopo la sua scomparsa. Così come la moglie Grazia Letizia e il figlio Luca che hanno fatto esattamente il contrario di quel che sta facendo Dori Ghezzi con De Andrè. Non sto formulando un giudizio, sto soltanto evidenziando come per ogni artista che muore i familiari si comportano in modo diverso. Nella famiglia Battisti solo un nipote dopo aver rotto con la zia si è messo a parlare. Panella ha detto: Niente di testimoniabile da me a nessuno. Quelle personali visibili sono già nelle cose scritte. Non parlo di nessuno con i quali ho collaborato. Conoscendo quello che travisano e deformano alcuni sedicenti testimoni, posso solo dire che è tutto falso.

Restano però cinque album, i cosiddetti “dischi bianchi”. Panella li definisce così: Tutto quello che è stato.
(Panella) Quando li ho scritti, avendo una vaga idea di chi fosse Battisti, per me era il momento di togliere le sue canzoni dai falò, dai pianobar, dalle gite. Il passato di Battisti è trivializzato da questa roba. Credo sia molto offensivo un pullman che canta Battisti. È offensivo per un artista. Lo usano come scarico. Un defaticamento.

Ma torniamo a “Don Giovanni” (1986), e leggiamo il testo della canzone “Le cose che pensano”. A parte qualche invenzione lessicale come “i lungomai” che ricordano “il lungomare” o il verbo “spensierare”, in questo testo ci sono altre creazioni linguistiche come il “tedio a sdraio” che richiama la “sedia a sdraio”.

Son le cose
che pensano ed hanno di te
sentimento.
esse t’amano e non io
come assente rimpiangono te
Son le cose prolungano te
La vista l’angolai
di modo che tu mai
entrassi col viavai
di quando sei
dolcezza e liturgia
orgetta e leccornia
La prima volta che
ti vidi non guardai
da allora non t’amai
tu come stai (ah come stai)
Rimpiangono te
son le cose, prolungano te
certe cose

Vi sembra un “nonsenso” questa canzone malinconica che parla di un amore finito e dell’innamorato che si chiede lei come sta, cosa fa? No, non penso a te, non sono così debole, ti penso perchè ho visto quel vestito nell’armadio, quel film che ti piaceva molto, quel libro che ti ho regalato. Lo stridore sta in quei verbi al passato remoto (smemorai, affacciai, t’amai) e invenzioni lessicali (l’angolai, di sangue m’inguaiai), versi immersi in una melodia struggente. Ma con improvvise divertenti “improvvisazioni” (Se è lecito, che fai in quell’attualità?) inimmaginabili nei testi dei nostri seriosi cantautori. Panella e Battisti non si (ci) prendono mai sul serio.

Proprio all’inizio, cominciano a darne prova in “Equivoci amici”, un divertissement dove si comincia a mettere in musica addirittura un registro scolastico (un unicum nelle canzonette che Panella chiama canzoncine).

Cassiodoro Vicinetti
Olindo Brodi, Ugo Strappi
Sofio Bulino, Armando Pende
Andriei Francisco Poimò.
Tristo Fato, Quinto Grado
Erminio Pasta, Pio Semi,
Ottone Testa, Salvo Croce,
Facoffi Borza, Aldo Ponche (o Punch)

per poi passare ad una serie di giochi di parole che sarebbero piaciute al grande umorista Marcello Marchesi.

Uno andò saldato
uno vive all’estro
uno s’è spaesato
uno ha messo plancia
e fa il trans-aitante
uno fa le more
uno sta invecchiando
perché è
un nobile scotch
Uno fa calzoni
dai risvolti umani

“Equivoci amici” sono meri equivoci linguistici come: andare saldato (dover essere saldato) ; andare soldato (partire militare) ; vivere all’estro (vivere nella fantasia);  vivere all’estero (vivere oltre confine); spaesarsi ( perdere l’orientamento);   sposarsi ( prendere moglie); mettere plancia ( linguaggio dei marinai) ;  mettere pancia ( ingrassare); fare calzoni ( fare dei pantaloni); fare canzoni (scrivere canzoni). I risvolti (dei pantaloni); i risvolti umani (delle canzoni); La verità viene a galla (viene fuori); la verità viene a palla (al momento giusto?).

L’artista, secondo Panella, fa qualcosa che un altro non sa fare, perciò, Venditti per lui è un artista perchè canta l’inno della Roma calcio in un modo che nessun altro saprebbe fare. A Panella tutte le interpretazioni che qualcuno ha tentato sui suoi testi non vanno a genio. Se leggesse queste mie note magari verrebbe a prendermi a casa.

(Panella) Non le chiamerei canzonette, io al massimo faccio uscire canzoncine. Canzonette lo usano in accezione peggiorativa. Non li conosco (i parolieri).Sono tutti sicuramente nel loro esercizio più adatti di me, come Salerno, Migliacci, Calabrese. Le canzoni non le so scrivere. Ho scritto parecchi testi per canzone. Si scrive perché si sa di saper scrivere. Se sai di saper scrivere, tu sei il migliore. Crei degli inneschi, degli stridori, dei cortocircuiti. E allora, in quel testo c’è una baraonda di tutto. E tu godi che lì dentro veramente sia confluito tanto di quel che accade. Non solo nella vita, che è il meno, ma nella vita in rapporto alle cose dell’arte: che siano icone, statue, libri, poesia, canzoni o film. Nella vita accade molto meno di quel che accade nell’arte.

Insomma, tutto sommato Mogol ha capito bene ma non ha capito le ragioni. L’operazione Panella/Battisti fu distruggere tutto ciò che Battisti era con Mogol. Però:

(Panella) Sì, volevo togliere Battisti dai falò, dalle tradotte, dai bus dei turisti e soprattutto, quello di cui sono davvero soddisfatto è che quando scrivevo i testi pensavo: di queste cose non potranno parlare. Toglierle anche dalla voce critica. È il vero grande risultato contro la morte.

(Panella) Battisti per danaro? Intanto è lui che ha chiamato me per lavorare su Pappalardo e poi mi ha chiesto, eventualmente, di proseguire. Questa affermazione è offensiva per gli artisti. Per me uno vale l’altro. I soldi meno li pensi e più ti arrivano. Devi ignorarli. Se sai fare una cosa falla, ti darà da vivere. Quanto all’aver fatto i dischi di Battisti, è stata una rogna più che altro.

Lucio Battisti nel periodo bianco (1982-1994)

Quanto tempo impieghi alla stesura di un testo per canzone?
(Panella) Con Battisti ne scrivevo, per andare lungo ed escludendo il lunedì e il sabato di una settimana, una al giorno. Ma pure tre. Il mio record è 18 testi in una giornata.

Lucio Battisti nel periodo “le bionde trecce” (1965/1980)

PS= L’analisi e la spiegazione di tutte le canzoni di Battisti-Panella si trova in un meraviglioso libro autopubblicato (lo trovate su Amazon) di Alexandre Ciarla. Ne riporto un brano (pag. 5) che è molto interessante:

Con “Don Giovanni”, Panella e Battisti hanno voluto compiere un atto sovversivo denunciando che l’interprete della canzone tradizionale non fa che indossare la personalità che l’autore gli ha letteralmente cucito addosso: ” Segna e depenna Ben Hur: sono Don Giovanni/rivesto quello che vuoi:son l’attaccapanni”. Ancor prima di essere il Ben Hur della canzone italiana, ovvero il campione d’incassi assoluto (come lo era stato nelle sale italiane fino al 1997 l’omonimo film di William Wyler) Lucio Battisti è stato per suo pubblico soprattutto un cantante di canzoncine d’amore, un seduttore irredento in musica e parole come il Don Giovanni di Mozart.

Con le canzono sartoriali di Mogol si era invece creato quel gigantesco fraintendimento che può aver avuto una parte determinante nello scioglimento della prima coppia: Lucio Battisti non era realmente quello diceva di essere nelle sue canzoni. Egli è stato soltanto rivestito della personalità di seduttore che Mogol gli aveva cucito addosso ed è probabile che per non soccombere sotto il peso di questa immagine di dongiovanni il cantante decise di interrompere la fortunata collaborazione.

E’ un fatto che con la svolta di “Don Giovanni” (l’album del 1986) nessuno ha più saputo dire di cosa parlasse Lucio perchè, a differenza di Mogol, Panella non ha scritto per le masse. Anzi egli è riuscito addirittura a togliere di bocca agli italiani le canzoni di Battisti (…) Panella ha scritto dei versi attraverso i quali Battisti potesse finalmente rivolgersi al suo pubblico per dirgli con sincerità che “io non sono io”, che la canzone è una pura funzione e, come il teatro, è mera apparenza.

Panella vuole rimanere a galla, non sprofondare dalla superficie, ovvero vuole rimanere leggero, caratteristica che associa alla sincerità. E restare sincero significa innanzitutto smettere di recitare una parte. Non c’è più una storia e non c’è più un personaggio che il cantante debba incarnare. Essere leggeri è anche essere contro la pedanteria eccessiva della canzone impegnata e inutilmente sofisticata dei “cantautori” (con i loro discorsi profondi). “Alla canzone non è chiesto di dire, ma solo di apparire. Ecco perchè l’apparenza”. Ovvero sincerità, leggerezza, inconsistenza, perfino vacuità. Non è necessario dire il sentimento, basta mostrarlo, esso deve apparire senza essere detto.

DISCOGRAFIA Tra gli album in collaborazione con Mogol si ricordano: Lucio Battisti (1969); Emozioni (1970); Amore e non amore (1971); Umanamente uomo: il sogno (1972); Il mio canto libero (1972); Il nostro caro angelo (1973); Anima latina (1974); La batteria, il contrabbasso, eccetera (1976); Io tu noi tutti (1977); Una donna per amico (1978); Una giornata uggiosa (1980); con la moglie, E già (1982). In collaborazione con Panella: Don Giovanni (1986); L’apparenza (1988); La sposa occidentale (1990); Cosa succederà alla ragazza (1992); Hegel (1994).