Per anni Antonio Milano, il professore, si è alzato con la prima luce del mattino per accudire il suo manoscritto prima di andare a insegnare al liceo. Della realtà di quel testo dall’oralità debordante, radiofonico e teatrale, un’Odissea fitta di esclamativi e posseduta dal ritmo sincopato del blues, sapevano solo pochi iniziati, ma a Nicastro, la città calabra del professore, c’era chi favoleggiava di un romanzo-fiume, un magma incandescente dove esplodevano vampate di frasi simili alle grida dei pescatori nella caccia al pesce spada.
Al mattino presto Antonio si affacciava sulla sua enorme terrazza aperta ai quattro venti, stracolma di fiori tropicali come un racconto di Garcia Marquez, annusava l’aria salsa del Tirreno che, oltre Maida e Girifalco, tracimava verso Squillace e l’universo greco degli Joni, poi rientrava, sazio di odori, nello studio tappezzato di libri dove il manoscritto lo aspettava come la più superba e segreta delle amanti. Era un mondo solo suo, dove il racconto era solo finzione, altra cosa rispetto alla realtà. L’opera di un “fingitore”, come diceva il suo amatissimo Pessoa.
Il collaudo veniva dopo, di ritorno da scuola. Dopo averti cucinato un agnello alla greca o un piatto di struncatura ai rimasugli di pesce, ti aspettava al varco per ascoltare dalla tua voce, a pranzo finito, il frutto orale del suo lavoro mattutino. «Leggi — diceva come in un’investitura imperiale — ho scritto questo», e ti metteva addosso una bella responsabilità. Leggere era come affrontare uno spartito senza conoscere le note. Ma lui ti esortava a lasciarti andare al ritmo di quel fraseggio imperativo, quasi gridato, cui mancava solo l’accompagnamento di un’armonica alla Bob Dylan o alla Woody Guthrie.
Mentre leggevi, lui socchiudeva gli occhi e ascoltava, poi annotava, e poi ancora tornava alla sua risma di carta per limare, aggiungere, tagliare. Sottoponeva il testo agli amici, ma contemporaneamente lo sminuiva. Era talmente anti-retorico che non sempre era preso sul serio. Lavorava per se stesso, senza ambizioni libresche e senza prendersi mai troppo sul serio. Eppure, nello stesso tempo, non si stancava di rivedere. Era un perfezionista. Lo divorava una passione totale, intima e sistematica, che lo obbligava a portarsi sempre dietro i taccuini destinati al suo Milman.
Aveva subordinato al manoscritto anche i viaggi. La Grecia delle isole, — Cefalonia, Lipsi, Astipalia — dove poteva tracannare a sorsate l’aria egea di cui si era nutrito Omero. L’America, terra natale del suo eroe cacciatore di bardi. La raffinata Zagabria, porta d’accesso ai Balcani. La Dalmazia, con l’Erzegovina e il Montenegro, terra lunatica, madre di guerrieri e suonatori di gusle, dove sopravvive l’ultima epica d’Europa. E l’opera cresceva, lievitava come un buon pane o come un cristallo di rocca, per gemmazione, un’opera destinata a essere eternamente incompiuta. Un manoscritto cui solo la morte poteva forse, come in effetti ha potuto, apporre la parola “Fine”.
E fu solo dopo la morte che compresi fino in fondo non solo la traccia che egli aveva lasciato nella sua Calabria, ma anche l’humus culturale da cui era nata la passione per l’epica. Non fu una commemorazione, quella. Fu un’affollata evocazione, una seduta spiritica di gruppo, imperniata su un impressionante pianto greco. A me, ostrogoto del Nord, si svelò un mondo. Coloro che lo avevano amato — tra essi, molti ex allievi del liceo dov’era stato professore — si alternarono creando dei contrappunti, dove i monologhi diventavano lamentazione corale e aprivano squarci sulla struttura ad anello del periodare divagante di Antonio, che viveva attraverso le nostre voci.
Forse solo allora compresi Milman Parry Blues nella sua essenza teatrale e potei addentrarmi col piede giusto nella biografia di questo americano — «il giovane Parry nativo di Oakland», professore come Antonio, e come Antonio innamorato dell’antico — che tra le due guerre mondiali trovò nei Balcani la chiave dell’epica greca: il gioco ripetitivo delle formule e degli epiteti necessari a far quadrare il verso, la dinamica degli accenti, che nella terra delle parole sdrucciole fra Adriatico e Danubio restano plasmabili come tremila anni fa, la forma dialogica della scrittura, l’uso circolare delle storie inserite nella storia come dei flash back, la sovrana presenza del coro. Una dinamica che, proprio attraverso la ripetizione, spalancava uno spazio fantastico all’invenzione e alla creatività.
Per sfondare con le sue intuizioni, il giovane californiano “polìtropos”, aveva dovuto superare l’esame di un mondo accademico popolato di scettici soloni e orrende megere, e persino un collaudo teatrale americano come regista del Filottete di Sofocle, in cui gli attori Harry Levin e Robert Fitzgerald recitarono la loro parte in greco scatenando un uragano di applausi. E poi il viaggio risolutivo nel cuore dei Balcani, da professore della Harvard University, fra il 1933 e il 1935, dove il suo assistente Nikola Vujnovi? lo iniziò al distillato incendiario di prugne — la Rakija — per metterlo in contatto col mondo dei “Guslari”, ultimi bardi d’Europa, figli di una tradizione di narrativa epica strettamente legata a quella greca.
E il giovane professore nato in California scoprì così la sassosa Erzegovina, dove col suo dittafono catturò voci inverosimili. Lassù, a picco sulla Dalmazia, vide i bardi inventare canti dal nulla, dondolarsi come orsi in gabbia, chiudere gli occhi per trarre dal silenzio le parole, muovere l’arco sulla corda dolente dello strumento, stretto fra le ginocchia, farlo miagolare fino a far «scivolare le parole oltre il verso», in un mondo fuori dal tempo, dove si incontrano il presente e i millenni.
Ripetizioni, oralità, libero fluire del racconto. Il romanzo fa tesoro di tutto questo e lo inserisce nel proprio schema narrativo, sposandolo però — ecco l’intuizione-chiave del romanzo — al ritmo musicale afro-americano degli anni Trenta, il blues. Ne esce un modo di raccontare scanzonato e ironico, che sembra mettere tra l’autore e la scrittura un “terzo sguardo”, quello dello spettatore. Una scrittura antica e moderna, dove il gioco sillabico delle parole è per lui una fonte quasi più importante dell’ispirazione. Una tecnica orale e dialogica, basata sul contrappunto, che aiuta a viaggiare nel tempo di Milman oltre che in quello di Omero. Un tempo, quello del Charleston e del Jazz, che fu, a quanto pare, straordinario, fecondo di stimoli e di innovazioni in molti campi: antropologia, psicologia, biologia, archeologia e, appunto, musica. Il segno di un’America disinibita e aperta, così diversa da quella ipocritamente puritana di oggi.
Quando lo conobbi, pensai a un cheyenne, un nativo americano ribelle. Carnagione scura, carattere estroverso, mi apparve a bordo di una motocicletta, abbigliato alla Easy Rider. Mi guardò attraverso le palpebre socchiuse a fessura, come per soppesarmi.
Fu un preambolo brevissimo, e alla fine parlammo di versi, di piedi dattili e trochei, e lui, sciorinando rime, anagrammi e filastrocche, si prese gioco della mia imperizia metrica con un causticità di cui portai i segni a lungo, ma che mi diede la frustata necessaria a imparare. Senza di lui non avrei scritto la Cotogna di Istanbul. E fu con lui, nel gennaio del 2018, che discutemmo di Ovidio e delle metamorfosi nella poetica latina, confronto che contribuì a dar forma alle intuizioni-base del Canto per Europa.
Il libro
Milman Parry Blues di Antonio Milano (Diogene Multimedia, pagg. 419, euro 32). Testo estratto dalla prefazione