Emilio Gentile: “Così rischiamo di banalizzare il fascismo”

Ci deve essere una ragione se il più autorevole storico del fascismo decide di tornare con un nuovo saggio sul tema del totalitarismo, già analizzato in volumi che hanno segnato la storia della storiografia (Totalitarismo 100. Ritorno alla storia, Salerno editrice). “La mia potrebbe apparire una fissazione, soprattutto per chi ignora la storia”, scherza il professor Emilio Gentile, autore tradotto in tutto il mondo. “Per chi studia il fascismo da mezzo secolo, l’ignoranza attuale è inquietante”.

Da cosa nasce l’inquietudine?
“Dopo i grandi progressi fatti dalla storiografia italiana nell’ultimo mezzo secolo, assistiamo a una grave regressione non solo nel campo della conoscenza ma anche nella sensibilità collettiva verso i problemi storici analizzati nella loro complessità e concretezza. Stiamo tornando alle interpretazioni del fascismo, in voga dopo la guerra, quando cominciò quella che ho definito “la defascistizzazione del fascismo”, la sua riduzione a regime involontariamente autoritario, che ha favorito la modernizzazione dell’Italia, finito sulla cattiva strada solo con le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei. La “defascistizzazione” perdura, quando si ignora la realtà di un regime che manifestò la sua novità totalitaria fin dal principio”.

Totalitario fu l’aggettivo coniato dagli antifascisti italiani fin dal 1923.
“Per questo ho voluto sottolinearne l’anniversario fin dal titolo del libro, Totalitarismo 100. Prima nacque l’aggettivo, poi il sostantivo, proprio per indicare ciò che accadeva sotto lo sguardo di don Sturzo, di Giovanni Amendola e di altri antifascisti. Gli stessi che dal 1923 previdero, con straordinaria lucidità, le conseguenze del “regime fascista”, come già lo chiamavano: la distruzione del sistema liberale, il potere assoluto del duce in uno Stato a partito unico, il destino della guerra”.

È nota la sua interpretazione secondo la quale il fascismo è stato il primo esperimento totalitario della storia. Il volerlo negare rischia di avere conseguenze civili?
“Più che una interpretazione, è una constatazione, fondata sui documenti e non su elucubrazioni teoriche. Tuttora si continua ad ignorare quanto profonda sia stata la penetrazione del fascismo nella società, nella cultura, nelle istituzioni e nel costume, riducendolo a un regime da operetta. Ma se il totalitarismo fascista fu solo un’abbronzatura in camicia nera, dissolta con il cambio di stagione, perché torniamo continuamente a parlarne? Come è possibile che il periodo più incisivo nella storia dell’Italia unita e nella coscienza nazionale siano stati i ventitré anni di dominio fascista, e non i precedenti sessant’anni di monarchia liberale o i successivi settantasette di democrazia repubblicana?”.

Lei dice in sostanza che il non aver fatto i conti con la natura totalitaria del regime impedisce di consegnarlo alla storia.
“Io mi chiedo come sia possibile che ancora oggi si metta in discussione la peculiarità storica del regime fascista, domandandosi se fu veramente totalitario. È come domandarsi se la Chiesa di Roma sia veramente cattolica, o se la democrazia ateniese fu veramente democratica. Significa mettere in discussione la storia nelle sue realtà fondamentali. O semplicemente ignorarla”.

A mettere in discussione la natura totalitaria del fascismo sono esponenti di un partito politico oggi alla guida del paese.
“Purtroppo non è una loro esclusiva. È una banalizzazione diffusa fra politici, intellettuali, accademici. E rivela l’inutilità del lavoro storiografico per coloro che esercitano un ruolo dirigente in Italia. Le nostre classi politiche non conoscono la storia. La divulgazione storica per il grande pubblico è condita di storielle, pettegolezzi, effetti sensazionali. È un racconto che coltiva i luoghi comuni o asseconda il nuovo potere. La complessità annoia. O non interessa”.

Ma è stato questo ritardo nel fare i conti con la dittatura fascista ad aver favorito il successo di una forza politica erede del neofascismo?
“Non credo che gli elettori di Fratelli d’Italia siano tutti nostalgici del fascismo. Sono piuttosto persone deluse dai partiti degli ultimi governi. Mi chiedo però come sia stato possibile che settantasette anni di democrazia repubblicana non siano valsi a convertire gli italiani ai principi della Costituzione. La responsabilità non è dei fondatori antifascisti ma dei loro continuatori, incapaci di trasformare la Costituzione in un costume politico collettivo. Neppure la scuola ha trasformato la conoscenza storiografica in una lezione civica sul significato e il valore delle libertà democratiche. Ci hanno provato i presidenti della Repubblica, ma i partiti politici li hanno seguiti solo con la retorica”.

Resta il fatto che oggi molti italiani non hanno alcun turbamento davanti ai simboli littori e alla fiamma del neofascismo, che pure evocano morte e persecuzione.
“Credo che questo accada perché la Repubblica democratica ha consentito l’esistenza di un partito neofascista, presente in tutte le competizioni elettorali. L’articolo XII delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione limitò solo per cinque anni “il diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”. Se Mussolini fosse sopravvissuto, nel 1953 avrebbe potuto candidarsi in Parlamento”.

Ci mancava solo questo.
“Ma questa è stata la grande vittoria dell’antifascismo, capace di includere nel proprio sistema democratico anche i suoi avversari più temibili. E la democrazia repubblicana, nonostante i suoi travagli, vive da settantasette anni, cinquantaquattro in più del regime fascista”.

L’antifascismo oggi non viene riconosciuto come cultura politica fondativa né dalla presidente del Consiglio né dal presidente del Senato.
“Anche se venisse riconosciuto, basta la professione antifascista a definire un’identità democratica? Per qualsiasi partito, questa è definita dalla politica concreta. Probabilmente Giorgia Meloni intende utilizzare tutte le possibilità del metodo democratico per governare almeno vent’anni. Ma questa è la realtà della nuova democrazia recitativa, ovunque prevalente: democratica nel metodo, ma senza l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini alla politica”.

Non vede particolari rischi di un’involuzione democratica, come ha lamentato una personalità misurata come Romano Prodi?
“Il rischio può esserci. Ma l’involuzione è cominciata almeno da trent’anni, quando un partito personale che non era democratico al suo interno ha egemonizzato la scena pubblica. Bisogna però constatare che la democrazia naviga in cattive acque ovunque in Europa e nel mondo. Sopravvive il metodo – tutti riconoscono la competizione elettorale per scegliere i governanti – ma non serve più a realizzare l’ideale democratico, cioè governare per emancipare il maggior numero di esseri umani. L’ideale democratico si sta esaurendo un po’ dappertutto”.

Per chiudere con le alterne fortune della parola “totalitarismo”, c’è anche chi ha voluto cancellarne il lemma dal lessico scientifico.
“Nel 1968 il collaboratore di un’autorevole Enciclopedia internazionale di scienze sociali propose di abolirne la voce. Così avvenne. Nello stesso anno uno storico inglese propose di eliminare il termine “fascismo” dalla storiografia. Non è mai accaduto che qualcuno abbia chiesto la messa al bando di termini fondamentali come “dittatura”, “rivoluzione”, “democrazia”. Il fatto che sia accaduto per “fascismo” e “totalitarismo” fa riflettere, se ancora oggi c’è chi continua a negare le parole e le realtà storiche ad esse associate. E io continuo a studiare e raccontare i fatti della storia, anche a costo di apparire fuori moda”.

Il libro – Totalitarismo 100 di Emilio Gentile (Salerno, pagg. 208, euro 21)