Ennio Amodio/La retorica colpevolista della giustizia mediatica

Ormai con la sua invadenza il giornalismo giudiziario ruba la scena alla giustizia in toga. E impone il suo «statuto» che ribalta i principi su cui si regge il giusto processo. Anzitutto mediante la delocalizzazione, che privilegia le investigazioni rispetto al dibattimento, una fase troppo piena di oscillazioni causate dalla dialettica tra accusa e difesa per essere rappresentata come monolite colpevolista. La giustizia mediatica si nutre così di approssimazioni conoscitive e le trasforma in verità consacrate istillando nell’opinione pubblica l’idea della certezza a proposito di risultati che sono invece provvisori e non spendibili nel giudizio. In questo modo trionfa la retorica della colpevolezza che si alimenta della farina tratta dal sacco del pubblico ministero, nella ricerca di una perentorietà espressiva sulle acquisizioni delle indagini volta a placare l’ansia collettiva generata dall’allarme per i fatti criminosi.

Deviazione del campo visivo e artificiosa rappresentazione di congetture elevate a verità sono i due pilastri su cui è edificata la presunzione di colpevolezza nella giustizia mediatica. Mentre la magistratura indaga e affronta con paziente analisi la lettura del quadro indiziario, la stampa lancia i suoi titoli in cui l’inquisito è «inchiodato» dal video di un anonimo furgone che attraversa un incrocio, dai monosillabi captati in una intercettazione telefonica ovvero dalle risultanze di uno screening di massa del DNA. Come si può negare l’impatto del convincimento mediatico colpevolista? Ne ha riconosciuto la portata deviante persino la stessa Cassazione nella sentenza sul processo di Perugia quando ha affermato, annullando la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, che proprio la pressione mediatica aveva indotto gli inquirenti ad imboccare scorciatoie per consegnare al luccichio dello schermo televisivo l’immagine dei due ragazzi colpevoli.