Ieri ho letto qui Paola Peduzzi sull’opposizione trumpista nel Congresso Usa al sostegno all’Ucraina. Ha scritto: “La solita Marjorie Taylor Greene, deputata della Georgia, ha detto che ‘il Congresso non deve autorizzare un altro centesimo a favore dell’Ucraina e invece deve spingere l’Amministrazione Biden a cercare la pace: l’Ucraina non è certo il 51esimo stato dell’America’.
Considerando che la Greene ha anche chiesto il ritiro immediato degli Stati Uniti dalla Nato, queste frasi non sono nemmeno così drastiche…”. Ho letto con una specie di euforia – una deputata che proclama: “Fuori gli Stati Uniti dalla Nato!” – e un’altra specie di imbarazzo, perché di questa signora, “la solita…”, non sapevo niente, o avevo dimenticato.
Ora però esorto chiunque mi legga a cercare la voce che la riguarda anche solo nella versione italiana di Wikip. La deputata della Georgia, 49 anni, “nazionalista cristiana”, si è distinta per l’adesione alle teorie QAnon, la cospirazione dei pedofili nei garage devoti a Satana, l’auspicio di giustiziare Hillary Clinton, Obama e Nancy Pelosi, le vaccinazioni come ripetizione della Shoah, la buona ragione di Putin invasore dell’Ucraina, l’esibizione della propria mano armata, la denuncia del “nazista Soros”, e così avanti.
Bene, occorre inseguire gli aggiornamenti sul mondo in cui viviamo. Torno a quel “Fuori gli Usa dalla Nato, fuori la Nato dagli Usa”, che sembra una spiritosa parodia. La versione originale, con l’Italia (o l’Europa) fuori dalla Nato e viceversa – “buttiamo a mare le basi americane…” – appartenne a lungo a molti di noi. E al Pci, com’è noto, fino a che, nel giugno del 1976, Enrico Berlinguer (che era convinto di essere fortunosamente scampato a un attentato sovietico alla sua vita in Bulgaria), dichiarò di sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della Nato. Venuta tardi, e accompagnata da molte distinzioni e reticenze e occhieggiamenti ai capi del Cremlino, quella dichiarazione però non poteva che avere l’effetto pubblico di una rottura, un’inversione di campo. Indigesta a molti, ma senza ritorno. Della Nato dopo di allora non ci furono molte occasioni per occuparsi, se non ai nostalgici dell’infame socialismo reale quando finalmente furono colpiti i reali nazionalsocialisti di Belgrado autori delle guerre balcaniche degli anni 90. Poi le sentenze di liquidazione, come quella di Macron nel 2019 sullo “stato di morte cerebrale”. E intanto un buon ventennio di affari golosi fra Europa e Putin, quelli dell’ex cancelliere socialdemocratico Schröder innalzato alla presidenza di Rosneft, invidiato da colleghi e clientes minori.
La Nato è tornata in auge, rimessa accanitamente in auge dalla demenziale invasione russa dell’Ucraina. Putin, che se ne lamentava minacciato ai propri confini, e i comprensivi occidentali che l’hanno sentita abbaiare, orecchi fini, sono riusciti finora a estenderne enormemente la presenza ai confini nei paesi scandinavi che erano da sempre, e proverbialmente la Finlandia, campioni di neutralità. I paesi che hanno avuto o hanno tuttora l’imperialismo russo alle calcagna, ad abbaiare e mordere – compresa la Norvegia della frontiera settentrionale e dell’Artico – hanno mostrato che idea, kunderiana, si facciano del buon vicino russo. Il Cremlino è riuscito appena, finora, a risparmiarsi la perdita piena della Georgia.
Nessun atlantista era mai riuscito a fare per il rilancio della Nato, e addirittura la sua proiezione indo-pacifica, quanto fatto da Vladimir Putin. C’è una guerra fra uno stato europeo indipendente come l’Ucraina, invasa e occupata senza altra giustificazione che la protervia, e una potenza fatta di gas, petrolio, colonie penali e bombe atomiche – niente di meno, niente di più. La difesa ucraina viene condotta strenuamente con le armi e il denaro di molti altri paesi, variamente solidali, dentro e fuori dalla Nato. La quale ha deciso dall’inizio – da quando la resistenza inaudita degli ucraini ha sventato e ridicolizzato l’avanzata trionfale russa – di stare con l’Ucraina in un bilico delicato fra sostegno ed estraneità. Fra ragionevolezza, responsabilità e ipocrisia, anche. La Nato si riserva un ruolo che non consenta di dichiararla belligerante e non rischi un conflitto diretto, ed eventualmente nucleare. Il margine è stretto e mutevole, anche, ma da ambedue le parti. Si mette alla prova contemporaneamente il modo in cui il mondo, una sua parte, affronta le violazioni del diritto internazionale da parte di una potenza nucleare – ce ne sono almeno nove, infatti, e ne dipenderà l’aspirazione di altre ad aggiungersi al novero. Il limite insuperabile – salvo che qualcuno voglia tentare il potlatch totale – non sta nella disposizione o nell’uso di certi armamenti, che è mutevole e relativo, ma nell’estraneità formale dell’Ucraina al Patto, e precisamente al suo famoso articolo 5, che fa dell’offesa a ogni membro un’offesa a tutti. E’ stato buffo, e perfino ridicolo, il balletto di parole attorno a Vilnius: nessuno, e tanto meno l’Ucraina, immaginava l’ingresso nella Nato, e nemmeno la fissazione di una data, poiché la sola data possibile viene dopo la fine – “una” fine – della guerra guerreggiata. Il desiderio ucraino di un invito formale, sia pure a data da destinarsi, era questione simbolica e cerimoniale, una cortesia, che si è giudicata inferiore ai rischi di equivoci. E’ avvenuta, come qui si è scritto, l’unione di fatto – è destino delle unioni di fatto di pazientare, quanto ai riconoscimenti.
Ho ricapitolato ciò che è ovvio a chi non sia in malafede. Le cose non sono mai state così chiare a chi non sia in malafede (l’Ucraina ha rianimato anche una categoria logica e morale avvilita come la mala fede). Può darsi che contendenti sull’orlo di un corpo a corpo fatale si accorgano di averne ambedue abbastanza, come in certi pugilati cinematografici – nei quali comunque c’è uno che aveva ragione e uno che aveva torto. E’ possibile tutto, ora, e con una sensazione nuova di prossimità di un traguardo.
Che un dirigente di partito come Conte abbia commentato Vilnius come un passo avanti verso il coinvolgimento della Nato e del mondo – il suo, cioè – dentro una guerra mondiale, è una conferma. Che l’abbia condiviso Bersani è uno scandalo, per usare un’altra nozione da riesumare. C’è l’Ucraina invasa (“che sia stata invasa, che sia stata aggredita, nessuno lo nega, beninteso!”) che da 507 giorni si batte, in nome del proprio desiderio di libertà e di Europa, con la Nato che ci mette addestramento, mezzi e armamenti, e lei ci mette vite umane militari e civili, e uno come Bersani, il saggio Bersani, così saggio che (sul serio) si fece togliere il governo che si era guadagnato, e poi è andato a vivere in televisione, e trova che la prospettiva, rinviata sine die, senza nemmeno la cortesia di un invito formale, che un giorno questa Ucraina che si batte nel torneo coi colori della Nato senza che la donzella del cuore le abbia regalato il suo fazzoletto, il nostro cavaliere povero, si fregerà del titolo dell’ombrello sotto il quale noi stiamo distrattamente, dopo aver preso tanto sole al Patto di Varsavia… Ecco, tiro il fiato, voglio bene a Bersani.