Draghi un anno dopo le dimissioni: l’addio alla politica e alle «poltrone»

«La tentazione di dare la colpa agli altri è irresistibile». Per certi versi Mario Draghi non è sorpreso. L’aveva messo in conto ben prima che lasciasse la presidenza del Consiglio un anno fa, ma già dal momento in cui aveva ricevuto da Sergio Mattarella l’incarico di formare il governo nel febbraio del 2021. In quei giorni infatti non si fece irretire dagli auguri e dalle lusinghe che ricevette, e si rifugiò dietro una delle sue battute: «Anche dei nuovi collaboratori si parla un gran bene la prima settimana. Poi…». Poi persino chi sventolava «l’agenda Draghi» al pari di un vessillo se n’è dimenticato. Figurarsi perciò se è stato preso alla sprovvista dalle critiche sul Pnrr e persino sul superbonus. Questioni che peraltro aveva ereditato e sulle quali invece di giocare a scaricabarile aveva provato a mettere una pezza. Non furono le uniche.

D’altronde il gabinetto Draghi è stato il «governo delle crisi». Quella pandemica era in atto quando entrò a palazzo Chigi, e venne affrontata elaborando ex novo una campagna vaccinale. Gli esordi non furono semplici: mancavano le dosi e il premier — seccato dal comportamento dei partner europei — prese a chiamare insistentemente i suoi potenti amici ai vertici delle multinazionali farmaceutiche americane perché lo aiutassero. «Devono sentirsi stalkerizzati», confidò un giorno a un ministro: «Non mi rispondono più». Alla fine risposero e il piano anti-Covid risultò vincente, sottratto come fu alle dinamiche politiche che puntavano a trasformare ogni decisione di apertura o chiusura in una disputa ideologica.

La crisi bellica invece non era in preventivo. Anche perché i servizi segreti europei fino all’ultimo ripeterono che Vladimir Putin non avrebbe attaccato l’Ucraina. La mattina dopo l’invasione, il premier espresse il proprio disappunto: «Ne siamo venuti a conoscenza dai media». Senza farne più cenno, convocò il Comitato per la sicurezza della Repubblica e gestì un drammatico confronto tra chi spingeva per un immediato posizionamento a fianco di Kiev e chi metteva in evidenza che l’Italia dipendeva per il 45% dalle fonti energetiche russe. Draghi si prese alcuni giorni per riflettere, poi andò in Parlamento e disse: «Non possiamo voltarci dall’altra parte».

Dopo le iniziali incomprensioni, è stato il più importante sostenitore di Volodymyr Zelensky nella Ue. Fu lui a convincere Parigi e Berlino, che resistevano all’idea di far entrare Kiev in Europa. Persuaso che fosse la strada giusta, organizzò il famoso viaggio in treno con Emmanuel Macron e Olaf Scholz, e durante il tragitto verso l’Ucraina lasciò che fossero loro a spingere verso questa soluzione. Usò il metodo del soft power in molte occasioni, anche sul «price cap», così osteggiato a Bruxelles quanto utile ad abbassare il prezzo del gas. Nel frattempo elaborò il piano nazionale per uscire dalla dipendenza energetica da Mosca e realizzò l’accordo sui rigassificatori nonostante l’opposizione di quasi tutto il Parlamento.

Oggi l’ex presidente della Bce gira il mondo per conferenze. Nell’ultima — tenuta Oltreoceano — ha ribadito la necessità di una maggiore integrazione dell’Europa, convinto com’è che a chiederlo adesso siano gli europei. Periodicamente è inseguito da voci che lo danno di volta in volta prossimo ad assumere un incarico. Una sera si è voluto togliere lo sfizio di gabbare chi gliene chiedeva conto: «Sono appena salito in aereo per andare a occupare la poltrona». Le società demoscopiche lo hanno tolto dai rilevamenti a inizio anno, quando era ancora in alto negli indici di gradimento e aveva già smesso di occuparsi di politica «perché fa bene alla salute». Eppure continua a incontrare suoi ex ministri, quelli con i quali iniziò a darsi del tu dopo molti mesi.

Ci volle una lunga fase di adattamento perché si capissero. L’approccio iniziale fu brusco. Terminata la prima riunione impedì il rito delle dichiarazioni: «Oggi non comunicheremo nulla perché non abbiamo fatto nulla. Quando faremo qualcosa, lo comunicheremo». Lui, abituato alle stanze di Francoforte dove tutti sono educati al silenzio, appena si accorse degli spifferi che filtravano dal Consiglio minacciò i ministri di fargli lasciare i cellulari fuori dal salone. In quel gabinetto multicolore, cercò di limitare per ovvi motivi le discussioni politiche. In alcuni casi però capì di non potersi esimere. Epici restano i duelli con Dario Franceschini, con il quale tuttavia si è lasciato bene. La forma in ogni caso fu sempre salva. Dopo il passaggio delle consegne con Giuseppe Conte, per esempio, raccontò ai collaboratori che l’incontro era stato «discreto»: «Di sicuro non è stato come quello tra Enrico Letta e Matteo Renzi».

Fu la corsa al Quirinale a rompere gli equilibri nel governo e non è ancora chiaro se la crisi fu un divorzio consensuale o, come disse Draghi, «un divorzio inaspettato». Di sicuro il percorso del premier verso il Colle — comunque difficile perché non aveva precedenti — venne reso se possibile ancor più accidentato quando nacque il suo esecutivo, da chi si adoperò per la formazione della squadra. Nessuno è esente da errori e non lo è nemmeno «super Mario». Lui sapeva dove mettere le mani in economia e infatti con il «debito buono» ha consentito all’Italia una ripresa più rapida e forte di quella degli altri Paesi europei. Ma la politica è un’altra cosa e sulla presidenza della Repubblica i politici ebbero la meglio.

Ora che il tecnico Draghi è stato sostituito da una premier politica, si discute se e fino a che punto Giorgia Meloni abbia raccolto l’eredità ricevuta. Dal passaggio delle consegne ad oggi i rapporti tra i due non si sono interrotti ma si sono fisiologicamente allentati. Qualche settimana fa le polemiche con l’opposizione sul Pnrr hanno indotto la presidente del Consiglio a sostenere — in un’intervista al Corriere — che «il mio governo sta lavorando su un piano scritto da altri». Il punto è che Draghi dovette intervenire in extremis sul progetto redatto da Conte e i cambiamenti che potè apportare furono limitati perché non poteva sconfessare i grillini che erano il partito di maggioranza relativa. Tantomeno si potè modificare la cifra richiesta dall’Italia all’Europa e che palazzo Chigi riteneva troppo elevata per le capacità di spesa del sistema nazionale.

Il 21 luglio di un anno fa Draghi rassegnò le dimissioni e Mattarella sciolse le Camere. In questi giorni, come ogni estate, il tifoso della Roma si chiede cosa farà la sua squadra in campionato.