Dopo Raggi, Gualtieri; dopo Speranza, Mascaro

Carlo Calenda, che non le manda a dire e stando troppo sui social pondera poco, ha scritto che il sindaco di Roma Gualtieri tutto sommato è peggio della Raggi. Apriti cielo. I democrat non aspettavano altro per esclamare un “Eccallà”, mentre i grillini che hanno da sempre problemi con la lingua italiana l’hanno interpretato a modo loro: dunque adesso vi accorgete che la Raggi non era così male? Allora Calenda è stato costretto a ri-spiegare e la sostanza (per gli uomini di buona volontà) è la seguente: se Raggi è stata una sciagura per i romani, Gualtieri non ha rimediato.

Riflettiamo sine ira et studio sulla faccenda. Dopo quella sciagura grande che è stata Virginia Raggi è cambiato qualcosa con Gualtieri? Certo che no. E perchè succede questo? Ecco la domanda fondamentale, alla quale ciascuno di noi fornisce risposte diverse e contrastanti. Non è nemmeno più questione di destra e sinistra, Roma lo dimostra, dopo il fascista Alemanno nè i grillini nè il pd hanno saputo far meglio. Se volete, possiamo allargare lo sguardo oltre Roma e potremmo fare finanche l’esempio di Lamezia dove Mascaro succeduto a Speranza è stato una delusione grande per i suoi, per tutti quelli, intendo, che lo hanno votato convinti di aver trovato il rimedio, la cura, il riscatto. Cosa intendo dire? Intendo dire che governare una città (dei paesi è meglio non parlare perchè la loro situazione è ancor più fallimentare) si sta dimostrando in Italia una impossibile impresa, e la politica amministrativa non migliora i risultati pur cambiando casacche e addendi.

Da molto tempo mi sono convinto che la politica italiana non mette mai al vertice persone in grado di affrontare i problemi, nel migliore dei casi fa assurgere al vertice persone volenterose che debbono imparare da zero il mestiere di amministrare. Dopo 5 anni di apprendistato, il sistema li manda via. A Roma il sindaco adatto dopo la Raggi sarebbe stato forse Alessio D’Amato, ex assessore regionale alla sanità, ma il pd gli ha preferito Gualtieri, che è uno storico (sul particolare torneremo fra poco), uno che ha lavorato a Bruxelles e poi ha fatto finanche il ministro dell’economia. Gualtieri è stato scelto sulla base di una logica correntizia, non di un curriculum.

Il cv è tutto. Quando penso a Roma mi torna sempre in mente l’economista Luigi Spaventa, scomparso nel 2013 all’età di 78 anni. Politico, docente, dirigente d’azienda, fu ministro del Bilancio del governo Ciampi. Nel ’94 con coraggio e dedizione si candidò alle politiche col Pds, affrontando il Cavalier Berlusca in un collegio elettorale di Roma e perdendo. Era il 1994, e allora forse sulle ali di Mani pulite, il Pds ci teneva a schierare gente competente, ma durò poco, ora schiera solo amici del segretario in carica.

Quali sono le città italiane meglio amministrate? E’ facile saperlo. Milano, Bergamo, Vicenza… Altra cosa è la classifica delle città dove si vive meglio. Dalla classifica 2022 del Sole 24 ore risulta Bologna la provincia italiana in cui si vive meglio: il capoluogo emiliano è tornata in vetta (per la V volta) alla classifica generale della storica indagine che viene pubblicata ogni anno, dal 1990. Sul podio ci sono anche Bolzano, habitué della top dieci che quest’anno sale al secondo posto, e Firenze, terza dopo una scalata di otto posizioni rispetto al 2021. Quello di Firenze è un grande ritorno: per ritrovarla in testa bisogna risalire al 2003, quando vinse la 14ª edizione. Ho citato questa classifica di proposito, solo per dire che le classifiche del “vivere bene” lasciano il tempo che trovano. Avendo studiato a Firenze posso ben dire che oggi rispetto agli anni settanta è solo una città molto più sporca disordinata e invivibile. Colpa di un turismo di massa che, come succede a Venezia, è incontrollabile e ingovernabile. Insomma, amministrare una città, anche quelle dove la qualità della vita è accertata in maniera positiva, è terribile. Ma certo è più facile se la macchina comunale è funzionante.

Ecco il problema, la vera cartina di tornasole. A Lamezia oppure a Roma, a Napoli o a Catanzaro, tu puoi avere qualsiasi sindaco di qualunque colore politico ma egli sarà un povero cristo in croce lasciato solo, in quanto un sindaco, per governare i problemi del territorio, avrebbe bisogno di una macchina comunale, composta da dirigenti e personale, funzionante.

Nel migliore dei casi le amministrazioni di cui sopra sono soltanto il regno del quiet quitting, un fenomeno affermatosi tra le giovani generazioni per ripudiare l’ormai vecchio mito dello stakanovismo. Con il neologismo nato proprio sui social, si intende infatti l’idea di disimpegnarsi dal proprio lavoro, finendo per fare lo stretto indispensabile. Nel peggiore dei casi (e non sono in grado di fare una classifica tra Lamezia, Roma e altre città) non è nemmeno roba da quiet quitting, ma di grande menefreghismo. Basti pensare all’assenteismo fuori controllo dei vigili urbani, dei tranvieri, degli impiegati romani.

Un editoriale di Galli della Loggia sul Corriere della sera del 17 luglio 2023 aggiunge al nostro discorso una elemento nuovo. Egli se la prende con la predominanza tutta immaginaria del sapere scientifico quale causa del decadimento della classe politica. Invece è l’esatto contrario. Tanti uomini e donne di potere hanno fatto studi classici e si sono rivelati inadeguati a governare. Una lettura libera da pregiudizi e priva di fallacia logica, hanno sostenuto Bercelli e Campione, troverebbe facilmente per esempio esempi di mediocri o pessimi governanti con una formazione esclusivamente umanistica: in Italia, Francesco Crispi, Antonio Salandra, Benito Mussolini; e governanti assai migliori con una robusta formazione scientifica: ad esempio, allargando lo sguardo, non solo l’eccezione Merkel, ma anche Camillo Benso conte di Cavour, Luigi Einaudi, Ludwig Erhard, Margaret Thatcher, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Monti, Mario Draghi.

Dunque, sono proprio i nostri sindaci umanisti privi di una macchina comunale funzionante (efficiente sarebbe un gradino superiore) ad aver alzato bandiera bianca. Ma il popolo a queste cose non bada. E la politica ormai segue esclusive logiche carrieristiche e amicali.

Discorso del tutto diverso concerne le Regioni. Mentre un sindaco senza risorse, personale adeguato, strumenti, deve affrontare ogni sorta di problemi, ogni Regione su 10 euro di spese correnti ne spende quasi 8 nella sanità. Il nostro Occhiuto malgrado le promesse non sa neppure ancora a quanto ammonta con precisione il debito miliardario accumulato dalla mafia delle aziende sanitarie. La Corte dei conti documenta 15 Regioni dai conti in rosso, 7 che non riescono a garantire i livelli essenziali di assistenza, medici sempre più in fuga verso la pensione e tre Regioni su quattro che non riescono più a tenere i bilanci in pareggio.

Se togliessimo alle regioni la competenza sulla sanità, come una politica sana avrebbe dovuto fare da anni, le regioni cadrebbero come un castello di carte e tutti i Governatori vanesi che si danno tante arie non sarebbero più Nessuno, non conterebbero più nulla. Solo che in Italia anche quando sappiamo cosa occorre fare, non lo facciamo