«Questo però no»/Le imbecillità a mezzo social, le censure della sinistra e la libertà d’espressione che non piace più a nessuno

Il più importante lascito della pandemia è che nessuno è a favore della libertà d’espressione. Nessuno. Neanche quelli che se ne dicono difensori. Specialmente quelli che se ne dicono difensori.

La libertà d’espressione, l’ho già scritto circa duecento volte, o è assoluta o non è, o è estrema o non è, o è libertà d’espressione di quelli che vorremmo azzittire infilando loro una patata in bocca o non è. Vi vedo che annuite dicendo ma certo, mi farei ammazzare per difendere il tuo diritto a pensarla diversamente: state mentendo.

Meno male che state mentendo, perché proprio non si capisce con che logica balzana uno si debba far ammazzare, perdipiù per difendere una cosa astratta come il diritto di qualcun altro a dire qualcosa, e oltretutto qualcosa che il martire neanche condivide. Massù, per favore.

State mentendo perché avete, come tutti, il vostro «questo però no». Libertà d’espressione però le battute sugli ebrei no. Libertà d’espressione però i dubbi sui vaccini no. Ognuno ha messo il suo paletto, ma la cosa più grave non è mica questa. La cosa più grave è la solita: che siamo scemi.

Essendo scemi, abbiamo messo a custodire i paletti i miliardari in dollari proprietari dei social network. Quelli che peraltro consideriamo colpevoli di averci rimbecillito, violato la privacy, e chissà quali altri misfatti. A loro, però, abbiamo deciso di appaltare la regolamentazione della libertà d’espressione.

Occorre ricostruire brevemente cos’è successo negli ultimi quindici anni (Twitter c’è dal 2007, ma direi che possiamo serenamente stabilire come data d’inizio del rincoglionimento di massa di 2008, quando Facebook diviene d’uso comune).

Come vogliamo chiamare la fascia di popolazione di cui stiamo parlando? Élite? Classe dirigente? Privilegiati depressi? Facciamo: noialtri. Noialtri fino al 2008 non sapevamo che esistessero gli imbecilli. Cioè, lo sapevamo, ma era un concetto astratto. Se nostro cognato al pranzo di Natale diceva di sapere per certo che nelle fogne di New York c’erano gli alligatori, noi tornavamo a casa sghignazzando, convinti che quel cognato fosse rappresentativo di sé stesso e d’una propria speciale imbecillità.

Non so come sia andata che Elio e le storie tese abbiano scritto “Mio cuggino”, ma me lo immagino così: con la convinzione d’aver incrociato un cretino particolarmente cretino e la scoperta – prima, o magari solo di fronte alla popolarità della canzone – che quella fosse ordinaria cretineria. Tuttavia, la seconda parte dell’equazione non la svolgevamo mai.

Che se ognuno ha almeno un cognato cretino il mondo sia pieno di cretini era un sillogismo che sfuggiva alle nostre menti sebbene apertissime dall’aver frequentato il classico. Avevamo una fortuna sfacciata della quale eravamo del tutto inconsapevoli: ci sceglievamo le frequentazioni. Poi, appunto, sono arrivati i social.

La più gran balla che è stata raccontata in questi anni da sedicenti esperti di social (geni della truffa che sono riusciti a farsi pagare dalle aziende per spiegar loro meccanismi che non avevano capito: Wanna Marchi, perdonaci) è il concetto di echo chamber.

Il social ti fa vedere solo ciò che ti somiglia, ti isola rimandandoti rifrazioni delle tue opinioni, non ti allena alla dialettica perché t’illude che tutti la pensino come te. Ma quando mai. I social ci hanno, ogni giorno degli ultimi quindici anni, fatto vedere imbecilli che non avremmo mai incrociato.

Dalle quasi spose il cui gravissimo problema, dibattuto per centinaia di commenti, è che i vestiti col velo non sono di loro gusto ma il marito ci tiene tantissimo al gesto di sollevare il velo; agli antivaccinari che a ogni morto che abbia meno di novant’anni scrivono ah!, morte inspiegabile!, come mai!, certo non c’entra il siero; ai proprietari di cani che si ritengono genitori del loro animale domestico e si offendono se qualcuno dice loro che le parole «mamma» e «papà» servono a indicare altro; alle disperate che taggano tutto, dalle gomme da masticare alla pensione Miramare nella cui piscina si tuffano, pur di non pagare: lo zoo di vetro di esseri umani dalle disperazioni diversissime dalla mia che mai avrei incrociato e che rimiro grazie ai social è sterminato.

No, scusate. Non è vero che senza i social sarei rimasta ignara. Perché all’esistenza dei social va aggiunto un danno collaterale che possiamo catalogare nel faldone «disperazione dei giornali». È accaduto infatti che i giornali, vecchie pittate di Pirandello, abbiano pensato che la loro salvezza stesse nel rilanciare qualunque puttanata Vongola75 scrivesse sulla propria pagina: se alla gente piace Facebook, copincolliamole Facebook, vuoi che non si abbonino per leggere a pagamento ciò che possono guardare gratis sui loro social?

E quindi è successo l’impensabile: che l’élite, la classe dirigente, i presunti intelligenti, i privilegiati depressi sempre meno privilegiati e sempre più depressi si sono convinti che il cognato che una volta avrebbe detto la sua imbecillità a tavola diventi rilevante nel momento in cui la dice sull’internet. E che quindi l’imbecillità vada regolamentata.

La strada che conduce all’ultima idiozia, il deputato che propone il reato di negazionismo climatico, è lastricata di difensori della libertà d’espressione che hanno preteso che i social si facessero polizia morale rispetto ai penzierini degli antivaccinari, e poi rispetto a Trump, è lastricata della Zan (non so se ve la ricordate) e di tutte le altre imbecillità per mezzo delle quali abbiamo stabilito che la cosa più fascista che esista, i reati d’opinione, fosse un pilastro della sinistra contemporanea.

Ed è lastricata di milioni di titoli, di milioni di elemosine di clic, che riferiscono indignati che Brocco81 ha detto ai suoi tredici (ma pure fossero centotrentamila) follower che Tizio Famoso Prematuramente Morto l’ha di certo ammazzato il siero. È uno schifo, è una vergogna, clicca qui e chiedi anche tu che Zuckerberg lo mandi in castigo.

Oltre a non avere a cuore la libertà d’espressione, non abbiamo neanche imparato da Andreotti quella storia della smentita che è una notizia data due volte. E quindi se il marito della Meloni sbuffa che è estate e fa caldo – cosa che in privato facciamo tutti quando qualcuno ci annoia coi discorsi sul meteo, ma sappiamo come non venire espulsi dalla società civile e quindi mai la faremmo in pubblico – la nostra idea di censura è rilanciare la frase in ogni dove, farne un titolo che non sfugga anche a chi quel programma televisivo non l’avrebbe mai guardato, e infine chiedere che dire «fa caldo, sai che notizia» diventi reato.

Se avessimo avuto i social cent’anni fa, e una classe dirigente di sinistra altrettanto imbecille di quella alla quale siamo coevi, avremmo preteso da Instagram un bel divieto di fotografarsi con bluse nere o anche blu scuro, e poi vedi se non prevenivamo efficacemente una certa deriva politica.