Pugni, preti e calcio/Una storia bellissima per spiegare la distinzione tra aggredito e aggressore

Un mio amico mi ha raccontato una storia bellissima. Una storia di pugni e di preti. Una storia di partite di pallone. Una storia di punizioni. Una storia di giustizia.

Era il 1962, in una rinomata scuola romana condotta dai gesuiti. Nella classe di questo amico che mi ha raccontato la storia, c’erano due ragazzi ebrei. I preti indottrinavano accuratamente gli altri al dovere di trattare con rispetto e indiscriminata amicizia quei due. Uno dei quali – il protagonista della storia – era particolarmente asino, ma fortissimo a calcio, e perciò conteso da tutti ad averlo in squadra.

Ebbene, durante una partita, a contrasto delle prestazioni e delle abilità vincenti di quel campioncino, un altro, su cui evidentemente la lezione gesuita aveva fatto poca presa, ringhiò fuori «sporco ebreo». Quello allora gli ammolla una pizza che lo manda a terra, un cazzottone che spacca la faccia al bullo. I compagni guardano la scena, mentre abbondante sangue ributta dalla bocca e dal naso dell’incauto ripetitore antisemita.

Intervennero le autorità scolastiche. L’accaduto non poteva certo passare come se non fosse stato. I genitori del ragazzo acciaccato reclamarono provvedimenti contro il responsabile.

Passarono giorni nell’attesa del verdetto: sospensione, sicuro, preconizzavano tutti. Infine, il collegio giudicante sciolse la riserva ed emise il provvedimento: e fu sospensione, appunto.

Solo che, contro le attese, e a percuotere e formare le giovani coscienze dei compagni, sospeso non fu il ragazzo che aveva usato i pugni sulla faccia dello stronzetto. Ma quest’ultimo, sospeso perché aveva detto «sporco ebreo» a quell’altro e non ostante l’altro avesse reagito con violenza fisica all’insulto.

Mi dice il mio amico (e c’è da crederci) che la sanzione, così imprevedibilmente orientata, così forte nella capacità di ribaltare prognosi di giustizia non solo diverse ma opposte, così “avanzata” nell’ordinare la gerarchia delle offese, nel punire la più grave e originaria e nell’assolvere quella apparentemente sproporzionata, impressionò profondamente i ragazzi.

Solo vent’anni prima, una scena così non ci sarebbe stata: perché vent’anni prima non ci sarebbero stati ragazzi ebrei in quella scuola, né in altre. Comunque, i preti insegnarono a quel ragazzo, lasciatosi andare a un insulto razzista, uno che poi avrebbe fatto molta strada nell’amministrazione dello Stato, gli insegnarono che l’ingiustizia della sopraffazione può essere sopraffatta due volte, prima da chi vi resiste e poi da una giustizia più forte. Lo insegnarono a quel ragazzo e lo insegnarono a tutti gli altri, ai genitori che volevano la punizione dello «sporco ebreo» e ai compagni che lo guardavano mentre metteva al suo posto il vigliacco. Chissà se oggi, onusto d’anni e di incarichi, e ormai rimarginati gli sbreghi sulla faccia, quell’uomo se ne ricorda.

E chissà se in una democratica scuola pubblica dei nostri giorni si assisterebbe all’applicazione di una giustizia analoga, e non invece a una composizione pretesco-progressista a sigillo di una pace inclusiva, contro l’odio, con le ragioni dell’aggressore poste sullo stesso piano di quelle dell’aggredito.