L’Italia è un paese di poveri secondo le denunce al Fisco

Che l’Italia sia una Repubblica fondata sull’evasione fiscale emerge, abbastanza chiaramente, leggendo le dichiarazioni dei redditi dei 41 milioni di contribuenti italiani. Perché a impressionare non è tanto il volume degli affari dichiarato: 913 miliardi di reddito complessivo, al lordo degli imponibili in cedolare secca. Ma come quei guadagni sono divisi. E poi il numero dei grandi evasori, 300mila. Persone che con il loro comportamento contribuiscono a rendere le tasse più pesanti per chi le paga regolarmente.

Un Paese di poveri
Dei 913 miliardi dichiarati al Fisco, il 75 per cento arriva dal lavoro dipendente (490) e dalle pensioni (276), da chi cioè le tasse non le può evadere, mentre il 15 per cento appena dagli autonomi.

Ma c’è di più: non bisogna farsi ingannare dalle apparenze dei costi impazziti dell’estate (anche 100 euro per due lettini e un ombrellone in spiaggia), l’Italia a credere a quanto viene denunciato al Fisco è un Paese di poveri. Il 20 per cento degli italiani dichiara un reddito non superiore ai 6.700 euro. Un italiano su due non supera invece i 17.800 euro. Più di 50mila euro li guadagna invece appena il 6 per cento dei contribuenti, da considerarsi dunque a tutti gli effetti ricchi. Anche perché di questo 6 per cento (poco più di due milioni di persone) soltanto l’1,4 va oltre i 100mila, lo 0,5 sopra i 150 e soltanto in 41mila superano i 300mila euro.

Sono numeri che sembrano completamente scollati dal Paese reale che, è vero, ogni giorno deve fare i conti con le povertà e con le famiglie che non arrivano alla fine del mese, ma è altrettanto vero che – basta vedere i prezzi dei ristoranti e i numeri dei beni di lusso venduti – non è fatto solo per i ricchi con un reddito da 50mila euro lordi l’anno. Questo lo sanno bene anche all’Agenzia delle entrate e alla Guardia di Finanza che infatti hanno calcolato il “tax gap”, ovvero la differenza tra l’ammontare totale dell’imposta che si verserebbe in un sistema di perfetto adempimento degli obblighi fiscali e quello realmente incassato. In pratica: quanto manca alle dichiarazioni redditi degli italiani. Un numero che spiega perfettamente come, se tutti pagassero quanto devono, le imposte sarebbero meno della metà. Nel 2020, ultimo anno per cui le Entrate dispongono di dati concreti, “il tax gap ammonta a 67,5 miliardi”, a cui vanno aggiunti poco meno di 11 miliardi di contributi non pagati e altri 10 di imposte locali per un totale di 90 miliardi, meglio di 89,8 .

Ma chi è che non paga?

Secondo le stime dell’Agenzia, “alle persone fisiche titolari di partita Iva” si riferisce il tax gap dell’Irpef per circa 28,3 miliardi, “in diminuzione di 4 rispetto rispetto al 2015”. 9 miliardi sono da iscrivere invece all’Ires delle aziende, mentre 3,8 all’Irpef per i lavoratori dipendenti irregolari. Quindi, partite Iva. Aziende e finti autonomi, in realtà dipendenti. C’è speranza di recuperarli?

La lotta all’evasione

Nel 2022 il recupero dell’evasione fiscale ha avuto numeri da record: 20,2 miliardi, il dato più alto di sempre. Un elemento importante reso ancora più prezioso da un altro fattore: oltre alle maggiori entrate sono state assicurate “minori uscite”. Sono cioè stati concessi meno bonus rispetto a quelli richiesti. E questo grazie al lavoro di prevenzione della Guardia di Finanza, insieme con l’Agenzia delle entrate, che sono riusciti a bloccare 9,5 miliardi principalmente tra i crediti dovuti in relazione ai bonus edilizi. Il sistema è semplice e ormai noto: immobili inventati (clamoroso il caso delle particelle di stalle, in provincia di Foggia, trattate come fossero condomini da ristrutturare), vendite fasulle dei crediti, fino a farne perdere le tracce, fatture gonfiate sui costi vivi.

Il vero punto è però recuperare gli 89 miliardi di tasse che mancano. Come fare? “Le questioni che si aprono per rispondere a questa domanda”, risponde un ufficiale della Finanza che da anni si dedica proprio alla caccia agli evasori. Una caccia prolifica visto che con il suo gruppo è stato in grado di recuperare miliardi di euro tra i colossi della moda, i professionisti dei bonus e grandi aziende internazionali che avevano fittiziamente portato la loro contabilità all’estero. “Le questioni sono due: da un lato ci sono gli strumenti di intelligence finanziaria che noi utilizziamo, e che sono tutti di altissimo livello, anche grazie alla professionalità che abbiamo costruito in questi anni. Dall’altro, invece, c’è la capacità di intervenire e di punire. E su questo mi fermo, perché credo che siano altri a doverne discutere”. Il riferimento è, evidentemente, alle maxi sanatorie varate in questi tempi e che certo non mettono nell’angolo gli evasori. Anzi. Fatto sta, però, che la caccia continua. E lo si fa anche grazie agli strumenti più evoluti. Ultimo nell’ordine l’algoritmo dell’intelligenza finanziaria. Si chiama Vera, acronimo di “Verifica di rapporti finanziari”, ed è in grado di incrociare tutti i dati a disposizione di Finanza e Agenzia delle entrate, in modo da evidenziare possibili anomalie. La mole di informazioni è enorme: conti correnti, estratti conti delle carte di credito, patrimonio mobiliare e immobiliare, ma anche attività sul web, piattaforme social, tutto quello che è nelle banche dati ministeriali, dall’automobile che guidavate durante un controllo stradale ai viaggi che il commercialista ha portato in detrazione come fossero trasferte di lavoro, ecco, tutto quello che lo Stato sa o può sapere viene utilizzato dall’algoritmo per evidenziare anomalie. Chiaramente seguendo tutta una serie di procedure concordate con il Garante della privacy che passa, in un primo momento, dal rendere anonimi i dati. Significa che l’algoritmo inizialmente si muove su dati anonimi e che i nomi arrivano sui terminali dei cacciatori di evasori (le liste vengono inviate alle direzioni regionali e provinciali per organizzare le attività di controllo) soltanto dopo aver superato una serie di step, quando l’alert è circostanziato. Inoltre un’arma così potente, ha spiegato la stessa Agenzia in una circolare interna, non potrà essere utilizzata sempre e comunque. “La priorità – si legge – è per le posizioni riguardanti fattispecie e comportamenti che risultano di particolare disvalore: le frodi, le false compensazioni, l’indebita fruizione di misure di sostegno, a partire da quelle prodotte dalla pandemia del Covid”.

E, accanto agli evasori non trovati, c’è chi è stato scoperto e, ciononostante, continua a essere debitore con lo Stato. È la giungla delle cartelle non pagate, quelle che, grazie alle rottamazioni, per non parlare della possibilità di un condono, rischiano di non venire riscosse. Chi sono, infatti, i principali debitori dello Stato?

Sono 300mila, o per essere più precisi, 296mila e 400, e hanno un debito superiore a 500mila euro. “Tali debitori – hanno spiegato dalle Entrate – hanno un carico contabile residuo corrispondente al 69 per cento del totale del magazzino, pari a 795,57 miliardi”. Che significa? Che dei crediti che lo Stato vanta con gli evasori accertati, per due terzi sono da imputare a questi trecentomila. Chi sono? Istituti di credito, grandi aziende, magari società cartiere come accade per esempio nel mondo dei carburanti che hanno immesso tonnellate di benzina di contrabbando evadendo l’Iva. “Come si diceva – spiegano dalle Entrate – per la maggior parte si tratta di crediti vecchi e ormai difficilmente recuperabili”. Ma tutte le volte che vi parlano di una rottamazione, tutte quelle volte che sentite parlare di uno sconto fiscale per chi “è inseguito dall’Agenzia delle Entrate” – il copyright è del vicepremier Matteo Salvini – pensate a questi 300mila che posseggono 795miliardi non dati al Fisco. Che ora gli italiani per bene stanno pagando al posto loro.