Mancano 20 miliardi nelle entrate. Fubini spiega un governo a caccia di soldi

(11/8/23) (FS) La mia previsione è che ad un certo punto Mattarella sarà costretto a richiamare Draghi in tutta fretta. Perchè una cosa è certa, i populisti svuotano le casse e per non fallire abbiamo bisogno di una persona seria, come ci succede ormai ciclicamente.

( FEDERICO FUBINI) L’aspetto che più fa riflettere nel decreto sulla tassazione delle banche varato lunedì sera in Consiglio dei ministri è all’articolo 7, quello sulla destinazione del gettito. Lì si afferma che le maggiori entrate derivanti dal provvedimento saranno — tra l’altro — «destinate per interventi volti alla riduzione della pressione fiscale di famiglie e imprese». In sostanza, oltre ai previsti sussidi per chi fa fatica con il mutuo, l’imposta sulle banche dovrebbe finanziare la colonna portante della politica economica del governo: la riforma fiscale, con il taglio delle aliquote sui redditi delle persone fisiche, la conferma della riduzione del cuneo fiscale (per ora scade a fine anno) e — sempre che resti nei piani — un’estensione della flat tax per il lavoro autonomo.

Pagare il mutuo
Dunque il decreto stabilisce un nesso fra la tassazione delle banche e le coperture per la prossima, imminente legge di bilancio. E teniamo da parte per ora il dettaglio che il prelievo sulle banche vale solo sugli ultimi due anni, mentre il taglio delle tasse lo si vuole permanente: un po’ come cercare di pagare le prime rate del mutuo, in mancanza di meglio, vendendo i mobili di casa. E dopo? Ma questo non sarebbe il primo, né l’ultimo governo che cerca di coprire ammanchi permanenti con entrate estemporanee. Più urgente è chiedersi cosa ci dice questo episodio della finanza pubblica oggi in Italia. Perché quella promessa di coprire parte dei costi della manovra d’autunno con gli «extraprofitti» era inclusa in una prima versione del decreto, che implicava un gettito sostanziale: almeno 5,5 miliardi e, secondo certe stime, anche sette o più.

Caccia alle risorse
Ciò suggerisce che il governo è in cerca di soldi. Molti soldi. Soldi che servono urgentemente per far tornare i conti della manovra di bilancio d’autunno. Ed è comprensibile. La Ragioneria informa che nei primi sei mesi dell’anno il fabbisogno dello Stato è salito a 95 miliardi di euro, ben 52 miliardi in più rispetto a un anno fa. Possibile che il saldo fra entrate e uscite correnti del bilancio sia peggiorato di più del doppio, rispetto alla prima metà del 2022? Alcuni fattori contribuiscono a spiegare. Una decina di miliardi di minori entrate vengono, in primo luogo, dai crediti d’imposta dei bonus-casa che ora molti stanno usando per pagare meno tasse: si sapeva, era previsto, ora succede. Altri 19 miliardi di fabbisogno in più registrati a metà anno si spiegano con il ritardo nell’erogazione della terza rata del Piano nazionale di ripresa. Che tra breve però arriverà.
Resta un’altra ventina abbondante di miliardi di rosso in più nei saldi di cassa: quella parte lì è in cerca d’autore. E soprattutto in cerca di soluzione, ora che il tempo stringe per realizzare le promesse elettorali dei tagli di tasse da realizzare subito in legge di bilancio. Va concesso al governo il beneficio del dubbio, perché ne sapremo di più alla pubblicazione dell’aggiornamento del Documento di economia e finanza tra quattro o cinque settimane.

I fondi mancanti
E certo ci sono tante piccole spiegazioni per questo ammanco, ma una sembra sovrastare tutte le altre: le entrate fiscali non stanno andando bene, gli italiani stanno versando meno imposte di quanto uno poteva aspettarsi; per essere un po’ più precisi, data la crescita e l’inflazione dell’ultimo anno, si poteva immaginare che a questo punto lo Stato avrebbe avuto quasi il 10% di entrate fiscali in più, rispetto a ciò che gli italiani hanno concretamente versato. E, espresso in euro, questo 10% scarso equivale a un po’ più di venti miliardi: esattamente quanto manca nel fabbisogno.

Bagno di umiltà
Di fronte a fenomeni di questo tipo, ci vuole umiltà. Non sappiamo ancora se questo ammanco nelle entrate sia duraturo; se derivi da un ritorno di evasione innescato da alcuni segnali del governo (il «pizzo di Stato»…); se ci si è sbagliati, illudendosi che gli aumenti di gettito degli anni scorsi fossero permanenti; o se questa debolezza fiscale è un segno — possibile — che l’Italia in realtà è già in recessione. Quel che sappiamo è che i conti per il momento non tornano e che, per raddrizzarli, il governo sta ricorrendo ad alcuni interventi piuttosto bruschi. Uno di questi è stato il taglio di parte del reddito di cittadinanza via messaggio telefonico (ma era deciso da tempo). Un altro, l’intervento sugli «extraprofitti»: qui resta da capire cosa accadrà ora che la revisione del decreto ridurrà di molto il gettito e come si finanzierà la manovra a questo punto.

Credito più costoso
In altri tempi misure del genere si sarebbero chiamate «austerità», a maggior ragione in un’economia che ormai si è fermata. Il taglio del sostegno non aiuta i redditi più bassi. E gli aumenti di tasse sulle banche rischiano di rendere l’offerta di credito più scarsa e più costosa, piuttosto che aiutare chi ha un mutuo.
Ma a pensarci bene il decreto di lunedì non è il primo segnale che la finanza pubblica in Italia è sotto pressione. Nei primi sei mesi di quest’anno, l’eterno superbonus 110% ha già assorbito altri 18 miliardi, che diventeranno subito altro deficit e presto nuovo debito. E a marzo era passato inosservato un grosso aumento netto del deficit: fu rivista con Eurostat la contabilità dei bonus-casa e furono spostati indietro ad anni passati ben 90 miliardi di deficit creati dai crediti d’imposta. A quel punto i deficit attesi negli anni futuri avrebbero dovuto essere ridotti – perché gli stessi ammanchi erano già stati contabilizzati nel passato – invece gli obiettivi di disavanzo sono rimasti uguali. Di fatto si è creato così spazio per generare 90 miliardi di deficit in più durante l’attuale legislatura. Eppure, a quanto pare, neanche questo basta.
Come dice Mario Draghi, il deficit e il debito non sono un male in sé. L’importante è che siano «buoni», cioè servano a preparare crescita sostenibile in futuro. Ma questo è esattamente il dilemma che né il governo, né l’Italia in genere, finora ha saputo sciogliere.