Salario minimo/ sempre massimalisti vs riformisti

(12/8/23) (…) Tutti gli attori del tavolo in sala verde, del resto, sono perfettamente consapevoli dei limiti strutturali che il disegno di legge Conte (e Maurizio Landini) porta con sé.

Irrealistico immaginare di trovare in legge di bilancio oltre una decina di miliardi (c’è chi parla addirittura di 13 o 14) per attuare il disegno dirigistico del campo largo, sostenendo con fondi pubblici l’introduzione cogente dei nove euro erga omnes.

Al contrario, come ha notato Federico Fubini sul Corriere della Sera, il piatto piange perché il fabbisogno dello Stato è cresciuto con il governo Meloni di oltre 52 miliardi rispetto al governo Draghi, con un saldo di cassa in negativo per una 20 di miliardi. Tradotto: nella prossima legge di bilancio il problema sarà trovare le risorse per assicurare le attuali previsioni, a iniziare da 10  miliardi per rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale realizzato in via provvisoria per decreto nei mesi scorsi.

Resta il fatto vero: discutere di salario minimo è giusto, ma che lo strumento proposto dalla combinato disposto Cgil-Movimento 5 stelle a cui si sono aggiunti improvvidamente gli altri partner del cosiddetto campo largo rischia di sortire effetti opposti.

Questo perché è inevitabilmente costruito con il marchio di fabbrica del populismo massimalista, che pretende di risolvere ogni problema attraverso la leva della spesa pubblica (fatta a debito o o attraverso un aumento della pressione fiscale) e mediante una impostazione di natura dirigistica. E perché porterebbe con sé, se approvato in questi termini, il rischio dell’aumento del lavoro nero – soprattutto al Sud – e l’innesco di un benchmark al ribasso degli altri contratti, con l’ulteriore rischio sganciamento dalla contrattazione collettiva per le piccole aziende poco o nulla sindacalizzate, con relativo spostamento verso il basso delle retribuzioni. Il disegno di legge a prima firma Conte, insomma, porta con sé il classico meccanismo della eterogenesi dei fini.

In realtà il livello del salario minimo, per funzionare, dovrebbe essere determinato -in sede tecnica e negoziale- sulla base delle caratteristiche produttive italiane, della dinamica aziendale e di comparto, della riduzione del cuneo contributivo e sulla scorta di una contrattazione sindacale.

Senza dimenticare, fra l’altro, che l’ipotesi di 9 euro è comprensivo di scatti, indennità e altre voci che portano ad un netto di circa cinque euro. Sappiamo bene che la retribuzione media italiana negli ultimi a trent’anni è calata del 2,9 per cento mentre in Francia in Germania è aumentata del trenta per cento. Questo perché c’è un nesso causale tra la mancata modernizzazione del paese (sia in termini istituzionali sia in termini economici) e la sperequazione dei redditi con il blocco dei salari. (…)

Serve, al contrario, una politica organica. Ora Giorgia Meloni – bontà sua! – annuncia il minimo sindacale, e cioè che aprirà una stagione di confronto (che sarà preceduta dal coinvolgimento del Cnel… sorvoliamo…). A questo confronto noi arriveremo preparati, sulla scorta delle proposte già depositate in Parlamento e di una strategia di lavoro articolata in cinque punti.

Primo: politica dei redditi e rilancio della concertazione tra le parti sociali.
Secondo: taglio delle tasse sul lavoro.
Terzo: incremento della produttività a vantaggio dei salari.
Quarto: partecipazione dei dipendenti agli utili aziendali.
Quinto: politiche di sviluppo per sostenere la crescita.

Non dimentichiamo la lezione di Tarantelli: i salari non si determinano inseguendo i prezzi al consumo, ma nel confronto tra le parti sociali su produttività, condizioni di mercato reali, e concertazione. Con la politica che crea le condizioni di contesto, ma si affida poi all’autonomia delle parti sociali.

Si chiama riformismo, ed è ancora la via maestra per togliere questo Paese dalle secche in cui la demagogia e il populismo l’hanno trascinato.