In questi mesi i decisori politici, si pensi alla direttiva europea o, per stare all’Italia, alla proposta delle opposizioni che ha costretto il governo a discuterne, parlano molto di salario minimo. Ma sul tema è molto impegnato anche il mondo accademico con una notevole produzione scientifica che potrebbe essere utile alla politica per prendere decisioni più ponderate. C’è ormai un’ampia ricerca che mostra gli effetti positivi del salario minimo, generalmente posto tra il 40% e il 60% del salario mediano: non sono stati registrati i temuti effetti sulla disoccupazione, è diminuita la diseguaglianza salariale, in alcuni casi è aumentata la produttività e, ovviamente, sono migliorate le condizioni dei lavoratori che precedentemente percepivano un salario inferiore al minimo.
Il salario minimo ha superato anche l’ultima, difficile prova, dell’inflazione che in queste dimensioni in Europa non si vedeva da decenni. Uno studio degli economisti dell’Ocse Sandrine Cazes e Andrea Garnero mostra come, in questa fase di forte erosione del potere d’acquisto degli stipendi, nei paesi in cui è presente il salario minimo, soprattutto quando viene automaticamente indicizzato all’inflazione, i salari bassi sono riusciti a tenere il passo con l’inflazione. E, soprattutto, l’incremento dei salari minimi non ha a sua volta alimentato l’inflazione attraverso la tanto temuta spirale salari-prezzi.
L’Italia si trova in una situazione a suo modo singolare. Perché è uno dei pochi paesi europei a non avere un salario minimo legale e l’unico, tra quelli che hanno un sistema forte di contrattazione collettiva, dove i salari più bassi fanno fatica a crescere. Una ricerca di Eurofound, l’agenzia europea che si occupa di lavoro, mostra questo spaccato. Tra i sei paesi che preferiscono la contrattazione collettiva – Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia e Italia – da noi i dieci lavori con retribuzioni più basse sono quelli pagati meno rispetto agli altri cinque paesi. Ma questo è anche normale, visto il reddito pro capite più alto dei paesi del nord Europa. Il vero problema è che l’Italia è anche il paese in cui meno aumentano: cinque contratti su dieci (nei servizi e nell’agricoltura) non sono stati rinnovati.
Se il nostro sistema di contrattazione collettiva, che tutti dicono di voler difendere e tutelare, non firma nuovi contratti è poi evidente che nella società nasca la domanda del salario minimo, che può migliorare o far saltare l’attuale sistema. Perché il salario minimo è uno strumento che può essere molto utile, ma non andrebbe introdotto in maniera grossolana. La proposta delle opposizioni di 9 euro l’ora è pari al 75% del salario mediano, ben al di sopra della soglia del 60% indicata dalla direttiva europea, e farebbe del salario minimo italiano il più alto d’Europa e tra i più alti al mondo. Con possibili ricadute negative sul lato della disoccupazione e del lavoro nero soprattutto nel Mezzogiorno, dove i 9 euro corrispondono anche al 90% del salario mediano. Più che una terapia shock, può rivelarsi una terapia sciocca.
Un nuovo studio di Moritz Drechsel-Grau sui dati della Germania analizza l’impatto sull’occupazione di un salario minimo elevato, fino al 70% del salario mediano, quindi comunque più basso rispetto a quello proposto da Conte, Schlein, Calenda, Magi e Fratoianni. La conclusione dello studio tedesco è che per evitare la disoccupazione nel breve termine, l’implementazione del salario minimo deve essere graduale per accompagnare il processo di trasformazione produttiva e di ricollocazione dei lavoratori. Esattamente ciò che ha fatto la Germania, che nel 2015 è partita con un salario minimo orario sperimentale e relativamente basso (45%) per poi alzarlo progressivamente (fino al 60%).
Insomma, Giorgia Meloni dovrebbe aprire gli occhi sull’utilità del salario minimo ma le opposizioni dovrebbero togliere dal tavolo la bandierina dei 9 euro l’ora. Se al Cnel e in Parlamento si ragionasse seriamente e serenamente, affidando a esperti e parti sociali un’analisi approfondita della questione, alla fine potrebbe persino venirne fuori una buona riforma.