Tra i diversi aneddoti sulla difficoltà delle scelte etico-politiche, e di come sia difficile capire se un male minore ne eviterà uno maggiore, poche storie sono emblematiche quanto quella di Bill Clinton e Bin Laden. Nel 1998, i servizi segreti americani vennero a sapere che a Kandahar si nascondeva Osama Bin Laden: non era ancora il Bin Laden che ricordiamo, ma era già considerato un terrorista da molti Paesi occidentali ed era ricercato dagli Stati Uniti. Non si poteva catturare: l’unico modo per intervenire era bombardare a tappeto, uccidendo anche circa trecento civili innocenti. Clinton, allora presidente, scelse di non autorizzare l’operazione. Anni dopo, raccontando la vicenda, disse:«non sarei stato meglio di lui». Lo disse il 10 settembre 2001. Il giorno dopo, le Torri Gemelle furono colpite.
La stessa imponderabilità ci è restituita dalla vicenda di Robert Oppenheimer. È già passata una settimana dall’uscita in Italia del film di Christopher Nolan dedicato al creatore della bomba atomica, e le reazioni sono state quelle che ci si poteva attendere: Oppenheimer genio, Oppenheimer stragista, Oppenheimer eroe di guerra, Oppenheimer arrivista, Oppenheimer idealista e socialista, Oppenheimer yankee fino al midollo, Oppenheimer realista fino al cinismo, Oppenheimer umanista attivista.
In molti hanno cercato nel film una chiave di lettura del presente, un riferimento critico (e spesso polemico in senso anti-interventista) alla guerra in Ucraina e alla minaccia, accennata dalla Russia, di un’escalation globale e nucleare del conflitto.
Di fronte a un film iniziato nel 2021 e basato sulla biografia “American Prometheus” di K. Bird e M. J. Sherwin pubblicata nel 2005, queste inquadrature rischiano di essere fuori fuoco, e vale la pena chiedersi se il film di Nolan non possa essere l’occasione per una riflessione sulla politica e sulla scienza, nonché sulla tensione costante tra valori ideali e realismo.
A ben vedere, è tutto qui il dilemma della vicissitudine personale di Oppenheimer, tanto durante il progetto Manhattan che nel corso del suo attivismo del dopoguerra: nella riflessione sul punto fin dove può spingersi la tecnica, e su come possono la politica e i valori dell’umanesimo limitarla e subordinarla, su quanto male può essere accettato non tanto per fare il bene, quanto soprattutto per evitarne uno peggiore.
La figura di Oppenheimer tratteggiata da Nolan, lungi dall’essere contraddittoria – se non nella misura in cui lo sono tutte le storie personali, specie di chi in un modo o nell’altro fa la Storia – ci restituisce la complessità delle scelte etico-politiche che si è chiamati a fare nei grandi crocevia del destino collettivo: sviluppare un’arma che determinerà decine di migliaia di morti innocenti per fermare una guerra che, se continuasse, ne causerebbe molti di più? Competere con la Germania nazista nella produzione di una bomba che cambierà per sempre i conflitti umani, o rifiutare ogni coinvolgimento rischiando che uno strumento terribile divenga appannaggio esclusivo del male?
Più che un film per letture cotto-e-mangiato su situazioni presenti, più che un’allegoria superficiale della negatività di ogni conflitto, Oppenheimer di Nolan è prima di tutto un invito alla vecchia riflessione machiavelliana sulla legittimità delle categorie morali applicate allo sviluppo storico e all’arte politica e quanto siamo disposti ad accettare il male minore. Del resto Nolan non è nuovo al tema – si pensi a Interstellar o a Dunkirk, che sono leggibili anche in questa lente.
Se una riflessione del genere può essere stimolata da un film sul creatore della bomba atomica, è proprio perché in quella storia, più che in ogni altra (forse), il conflitto etico è vivido, ed è – tuttavia – ricomposto coerentemente: non c’è contraddizione tra l’Oppenheimer socialista e l’Oppenheimer a capo del progetto di Los Alamos, perché accomunati dalla volontà di vedere sconfitto il nazismo; non c’è contraddizione tra l’Oppenheimer creatore della bomba atomica e l’Oppenheimer attivista contro la proliferazione nucleare, perché accomunati dalla volontà di evitare un male più grande.
«Non so se noi siamo degni di fiducia con un’arma del genere, ma so che non lo sono i nazisti»: in questa frase, pronunciata da Cillian Murphy nelle vesti dello scienziato americano, sta tutta la scelta etica di Oppenheimer – e c’è la convinzione che il fine ultimo illumini di una diversa luce le azioni, qualifichi diversamente il giudizio sugli eventi.
Se una lettura dell’attualità è possibile attraverso la lente fornita dal film, è proprio quella – generale, ma per questo applicabile agli eventi in corso – della necessità di prendere atto che anche l’inazione è una scelta con degli effetti, che ogni anima bella che rifiuta di compromettersi per conformarsi a una visione ideale sta rinunciando a contrastare qualcos’altro di più terribile, che non è possibile tirarsi fuori dalla Storia, che anche quando ci assolviamo, siamo coinvolti.