Luigi Marattin/ Quello che unisce i liberali

Chi scrive è da tempo convinto che una delle patologie del sistema politico italiano degli ultimi trent’anni sia stata la progressiva tendenza alla formazione di partiti personali. Categoria nella quale, fin dalla fondazione di Forza Italia nel gennaio 1994, al momento rientrano tutti i principali movimenti politici italiani con l’esclusione del Partito democratico, che nel tentativo di controbattere questa tendenza è finito intrappolato nell’estremo opposto: la confederazione di partiti personali, in cui la leadership “federale” è costantemente messa in discussione, chiunque sia il leader.

Per partito personale si intende qui un’associazione che abbia almeno una delle seguenti due caratteristiche. Primo: si tenda a privilegiare l’adesione a essa non in virtù dei valori e della visione di società che si veicola (spesso oscura o confusa, quando non esplicitamente negata, come nel caso del Movimento 5 stelle), ma in virtù dell’adesione a una figura (se va bene) o in virtù della simpatia emanata da tale figura (quando va male, cioè più spesso).

Secondo: la mancanza di momenti strutturati e ricorrenti di democrazia interna: congressi periodici nel quale eleggere il leader e definire la linea politica generale, organismi dirigenti elettivi con compiti definiti e riuniti con regolarità, un’organizzazione territoriale diffusa ed efficiente (Azione ha svolto il suo congresso fondativo nel gennaio 2022, Italia Viva e Forza Italia hanno annunciato i loro primi momenti congressuali, che si terranno rispettivamente nell’autunno 2023 e nell’inverno 2024).

Partito personale non va confuso con leadership. Nella politica moderna, sarebbe impensabile non avere leadership forti e riconosciute, a cui il congresso riconosce l’agibilità di definizione della linea politica fino al congresso successivo (è la cosa che non è mai riuscita al Pd). Semplicemente, si sogna un partito che abbia un leader, ma che non si esaurisca con esso. E con una classe dirigente tenuta insieme da un’idea di società, e non semplicemente da un giuramento di fedeltà al leader.

Vaste programme, si dirà. Ma facciamo un passo alla volta. Un partito, si diceva, dovrebbe esistere in quanto portatore di un’idea di società e delle azioni che ritiene necessarie per realizzarla. Ci provammo, in maniera estremamente embrionale, nella prima pagina del programma elettorale della lista “Italia Viva + Azione” per le politiche di un anno fa. E avremmo continuato con la stesura del Manifesto del nuovo partito, che – se non ci fosse stata la rottura di aprile – ora sarebbe già stato pubblicato e sarebbe stato la base per le adesioni al congresso fondativo che si sarebbe dovuto svolgere a fine ottobre.

Ora i tempi sono ahimè diversi, e accontentiamoci per ora di un obiettivo minore: in attesa di farlo sul futuro, vediamo se è possibile identificare sotto la stessa etichetta politica chi, perlomeno, condivide la stessa idea sul passato. Anche perché pare difficile essere in grado di costruire una visione comune sul futuro se non si concorda sulle cause profonde dei problemi che si propone di risolvere.

Mi riferisco a un grafico molto noto, ma la cui periodica ri-pubblicazione accende il dibattito per quei tre-quattro giorni che costituiscono la durata media di una riflessione pubblica nel nostro paese. L’Italia è l’unico paese al mondo occidentale – e probabilmente tra i pochissimi sul Pianeta – dove il Pil pro-capite è sostanzialmente lo stesso di venticinque anni fa. Vale a dire – se mi passate la brutale semplificazione – l’Italia è un maturo quarantacinquenne che però ha lo stesso stipendio di quando aveva vent’anni. Facile immaginare che questo quarantacinquenne sia piuttosto arrabbiato, e magari più incline di altri suoi coetanei stranieri a dar credito al primo populista che passa e gli racconta il paese dei balocchi.

Ma qual è il motivo di questa macroscopica anomalia italiana?

I politici si dividono sostanzialmente in tre gruppi, a seconda della risposta che si fornisce a questa domanda. Il primo gruppo è costituito da coloro che credono che la causa sia il progressivo venir meno del ruolo della spesa pubblica e della presenza dello Stato nell’economia. In costoro è sovrabbondante l’utilizzo dei termini «austerità», «neo-liberismo» e sinonimi.

Il secondo gruppo è costituito da chi è convinto che il motivo di questa performance così negativa risieda nell’apertura dei mercati (“globalizzazione”) e nell’adozione dell’euro. In costoro, invece, sono frequenti gli attacchi alla finanza, ai mercati, alla Banca centrale europea, alle istituzioni economiche multilaterali, alla Cina, ecc.

C’è poi un terzo gruppo convinto che la causa sia un po’ più complessa. Costoro iniziano contrapponendo al grafico di cui sopra un altro diagramma: quello che mostra la crescita nulla della produttività totale dei fattori (= il motore della crescita economica) negli ultimi decenni. Il motivo per cui il Pil pro-capite italiano è lo stesso di un quarto di secolo fa non è la ritirata dello Stato (ipotesi bizzarra, in un paese in cui la spesa pubblica da allora è raddoppiata) né l’adozione dell’euro (che ci ha garantito stabilità valutaria, credibilità anti-inflazione e centinaia di miliardi di risparmi in interessi sul debito) né la globalizzazione (che ha consentito al segmento più dinamico – sebbene minoritario – della struttura produttiva italiana di tenere a galla il paese). Ma è, semplicemente, la crescita zero della produttività, vale a dire della capacità di combinare efficacemente gli input di lavoro e di capitale presenti. In altre parole, l’Italia non è riuscita ad adeguare le proprie strutture economiche, sociali, produttive, istituzionali e politiche alle dinamiche globali.

I principali pilastri della società italiana, infatti, risalgono a prima della globalizzazione: il welfare, il fisco, la pubblica amministrazione, la giustizia, la specializzazione produttiva, la struttura dei mercati, la dimensione media d’impresa, le caratteristiche fondanti del sistema formativo, l’assetto istituzionale. In questi decenni ogni tentativo di riformarne le caratteristiche al fine di adeguarle al nuovo assetto globale è quasi sempre miseramente fallito, sotto i colpi di populisti e conservatori di ogni specie. E quando ha ottenuto qualche significativo risultato (penso all’esperienza del governo Renzi nel 2014-2016, o la riforma Fornero nel 2012) si scatena successivamente la corsa a demolire quelle riforme. Come conseguenza, l’Italia si è trovata a giocare un campionato totalmente nuovo (la globalizzazione) con modulo e squadra vecchi (un sistema Paese fatto costruito sul mondo della metà del secolo scorso o poco più).

C’è una differenza sostanziale tra la terza spiegazione e le prime due. Queste ultime assolvono sostanzialmente la politica e la società italiana, perché presunte vittime passive di due presunte tendenze internazionali (l’austerità e l’integrazione dei mercati). La terza, invece, incolpa entrambe. O meglio, si auto-incolpa.

Forse questa ultima considerazione aiuta a comprendere perché le prime due spiegazioni – a volte da qualcuno considerate vere congiuntamente – siano largamente maggioritarie nell’attuale spettro politico. La prima comprende, oltre a due terzi del mondo sindacale, il M5S, quella parte del Partito democratico che si riconosce appieno nella linea della segretaria Schlein, e tutto quanto c’è alla sua sinistra. La seconda comprende Lega, Fratelli d’Italia (e tutto quanto c’è alla sua destra) e quella parte di Forza Italia che si è arresa al sovranismo populista.

La terza spiegazione – quella più difficile – è sposata dall’ex-Terzo Polo (che l’ha scritta nero su bianco all’inizio del programma elettorale), da Più Europa, dal movimento dei Liberal-Democratici europei, e probabilmente da alcuni esponenti riformisti sia del Pd che di Forza Italia. Vale a dire quattro soggetti politici pienamente distinti più gli esponenti silenziosi che non accettano la deriva conservatrice e/o populista dei loro attuali partiti.

La domanda quindi è semplice. In attesa di costituire una comunità politica in grado di condividere un’idea liberal-democratica di paese (e di chiedere, su quella base, le adesioni), è almeno possibile iniziare a far ragionare insieme le persone che condividono la stessa idea sul perché l’Italia sia uno dei pochi paesi al mondo in cui il reddito pro-capite è lo stesso di venticinque anni fa?