Forum Aldo Grasso/Lucio Battisti per sempre ma 18 anni non contano

Due trasmissioni, una su Canale 5 e ieri sera su Rai 1, hanno ricordato Lucio Battisti scomparso a soli 55 anni. Il sodalizio con Mogol è durato dal 1965 al 1980, 15 anni. Se è morto nel 1998, vuol dire che 18 anni di lavoro li ha fatti senza Mogol. I 5 album bianchi con Panella sono usciti dal 1988 al 1994. Nel 1982 aveva scritto con la moglie Grazia Letizia Veronese “E già”.
La televisione italiana, ricordandolo, sta facendo da decenni, una operazione singolare.
Immaginiamo, per capirci, se di Picasso si rievocassero il periodo blu, poi quello rosa, poi quello africano, e non una sola parola venisse dedicata al periodo cubista.
Oppure immaginiamo un ricordo di Marcello Mastroianni dove si citassero solo i film fatti con Fellini, e non si dicesse nulla sugli altri film. Ma che giornalismo è?
Certo, uno può ben avere il diritto di pensare che il vero grande Battisti è quello che ha lavorato con Mogol, ma omettere di ricordare che poi ha scritto 5 album con Panella è la negazione di qualsiasi deontologia professionale.
Dilettanti in malafede. Roba da sovietici che sui dissidenti facevano calare il silenzio. (di frascop, 14/9/23)

LA RISPOSTA A CURA ALDO GRASSO
Una vergogna. Ne scrivo oggi per la rubrica di domani.

Aldo Grasso/ Più parole che canzoni nel documentario dedicato a Battisti (15/9/23) Le intenzioni sono sempre buone: «Raccontare l’avventura umana e artistica di Lucio Battisti, attraverso un vasto e, in alcuni casi, inedito materiale d’archivio italiano e internazionale, unito ai ricordi di chi lo ha conosciuto, primo fra tutti Mogol, il compagno d’arte e d’avventura». Questo voleva essere «Lucio per amico. Ricordando Battisti», un documentario di Maite Carpio per Rai1 (adesso si dice «docu-film» che fa più fino, come quando si dice «giornalista e scrittore»). Il titolo esatto, però, avrebbe dovuto essere questo: «Lucio per amico. Ricordando Mogol». Perché mi è venuto in mente di scrivere una simile stupidaggine? Forse perché Giulio Rapetti, in arte Mogol, è convinto di essere un poeta e si vive come tale (leggete i suoi testi, senza la musica di Battisti, e scoprirete la poetica del banalese). Forse perché al buon Franco Mussida è sfuggita un’eresia: «Mogol era il John Lennon di Battisti».

Forse perché c’erano più parole che canzoni. Forse perché Pasquale Panella andava comunque citato e non ignorato come se avesse provocato la morte artistica di Battisti (Mogol non pronuncia mai il suo nome, un vero signore). Sta di fatto che il protagonista della serata è stato Giulio Rapetti, in arte Mogol, poeta e paroliere. A Battisti è toccato un destino inverso a quello di Franco Battiato. Di Battisti si parla sempre del suo periodo più popolare, quando ha accettato che la sua musica innovativa fosse «tradotta» da un rabdomante dell’italiano medio, da uno stratega del mainstream, da un teorico, suo malgrado, del kitsch.

Nei confronti di Battiato, invece, c’è tutta un’ansia per esaltare i suoi momenti più sperimentali e colti: nelle rievocazioni dei suoi cantori è sparito il nome di Giusto Pio per lasciare il posto al filosofo Manlio Sgalambro cui non dispiaceva la tardiva popolarità dopo aver teorizzato l’indifferenza in materia di società (ma che modeste canzoni!). Nella leggendaria unione fra Giulio Rapetti, in arte Mogol, e il musicista Lucio Battisti continueremo a chiederci, con supremo anelito, chi dei due è stato il miracolato. Il docu-film parteggia per il poeta della brughiera.