Il successo di Prodi nel contenere i migranti e la ritrosia di Schlein a imitarlo

Nessuno lo ha ricordato, ma Giorgio Napolitano, nel 1997, ministro dell’Interno, fu tra coloro che imposero un rigido blocco navale all’Albania, preoccupato per i riflessi sull’ordine pubblico dell’afflusso di migliaia di migranti irregolari. Con lui, nel decidere il blocco navale, buona parte del Gotha della sinistra: Romano Prodi presidente del Consiglio, Walter Veltroni vicepresidente del Consiglio, Nino Andreatta ministro della Difesa e poi i ministri Pierluigi Bersani, Carlo Azeglio Ciampi, Franco Bassanini, Rosy Bindi, Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer, Anna Finocchiaro, Livia Turco.

Nessun ministro si dissociò, anzi, dal decreto ministeriale emesso da Nino Andreatta del 4 marzo 1997 che ordinò alla Marina Militare di effettuare un blocco navale fin dentro le acque territoriali dell’Albania con la regola d’ingaggio di «fermare, visitare, dirottare anche navi non italiane e riportarle sulle coste albanesi». L’intervento militare italiano arrivò a distruggere molti gommoni all’interno del porto di Valona. La decisione del blocco navale venne presa a fronte di un afflusso in Italia di trentamila profughi albanesi dal dicembre 1996 all’aprile del 1997. Una piccola quota parte, un quarto, rispetto ai flussi del 2023.

La situazione dell’Albania allora era simile a quella della Libia di oggi. Il governo centrale del presidente Sali Berisha era scosso dal fallimento delle società finanziarie piramidali e esercitava un controllo parzialissimo sulle città e su un territorio in mano a bande armate e milizie irregolari in un clima di guerra civile. Durazzo e Valona, porti di partenza verso l’Italia, erano in mano ai clan criminali degli scafisti. Il governo albanese quindi siglò col governo dell’Ulivo italiano un accordo che autorizzò di fatto il blocco navale anche all’interno delle sue acque territoriali.

Da far notare a Elly Schlein e ai tanti critici di sinistra che oggi ritengono immorali gli accordi col presidente tunisino Kaïs Saïed perché non democratico, che la caratura democratica del governo di Sali Berisha col quale il governo di Romano Prodi siglò l’accordo era vicina allo zero, in più con evidenti venature di complicità con la criminalità. Stati Uniti e Gran Bretagna in seguito l’hanno bollato quale «persona non grata» per i suoi legami con la criminalità organizzata e per la sua attività corruttiva.

L’anno successivo Giorgio Napolitano insieme a Livia Turco formulò una legge sull’immigrazione irregolare, la numero 40 del 1998, che tra l’altro istituì i Centri di permanenza temporanea e assistenza, oggi denominati Cpr. In seguito, nel 2013, in una intervista nella trasmissione Ballarò, Romano Prodi ha rivendicato come giusta la scelta di quel blocco navale.

Ovviamente, non ricordiamo questo precedente, pur clamoroso e di indubbia interpretazione, per auspicare che oggi il governo Meloni segua l’esempio del governo dell’Ulivo e applichi, in accordo coi governi libico e tunisino, come fu allora col governo albanese, un blocco navale nel Canale di Sicilia. Lo ricordiamo invece perché merita una riflessione, soprattutto da parte di Elly Schlein, fan di Romano Prodi, così come di tutta la sinistra, su due elementi fondamentali della crisi migratoria.

Il primo elemento da valutare è il pieno successo proprio di quelle politiche di esternalizzazzione per affrontare e contenere i flussi irregolari tanto criticate dalla segretaria del Partito democratico. Infatti, un pieno successo arride oggi in Albania proprio alla strategia di affrontare e sterilizzare i flussi di clandestini intervenendo sia manu militari per contrastare gli scafisti, sia alla loro fonte.

Secondo quanto valutato da Milano Finanza dal 1991 ad oggi l’Italia ha effettuato spese in aiuti a Tirana per non meno di un miliardo di euro innanzitutto in missioni militari (Pellicano e Alba) così come in aiuti alimentari alla popolazione. Dunque, un mix di azioni di forza contro gli scafisti e di missioni di peacekeeping in un contesto multinazionale europeo affidate alle forze armate che hanno distribuito beni per centinaia di milioni di euro, ha avuto pieno successo.

A oggi il quadro politico interno albanese è normalizzato, il Paese è addirittura entrato a far parte della Nato e sono ormai praticamente inesistenti quei flussi di clandestini tanto robusti da convincere il governo dell’Ulivo e uomini come Romano Prodi e Giorgio Napolitano a istituire un blocco navale. Politiche di esternalizzazione e di intervento militare pienamente riuscite.

Naturalmente, non si vuole ridurre la complessità del fenomeno migratorio che proviene oggi dai Paesi dell’Africa, con quella di un piccolo Paese con solo 2,8 milioni di abitanti. Il continente africano con quasi un miliardo di abitanti nel 2022, secondo il World Migration Report, ha visto ventuno milioni di abitanti emigrati in un altro Paese africano e undici milioni emigrati verso l’Europa, più alcuni milioni di abitanti emigrati verso l’Asia e le Americhe. Un radicale processo continentale di inurbamento interno dalle campagne accompagnato da una crisi delle prospettive di vita decente delle nuove città e megalopoli.

Ma il principio di intervenire sulle radici africane del fenomeno migratorio – la esternalizzazione, parola astrusa tanto cara alla Schlein – e di non occuparsi solo dell’accoglienza diffusa sul territorio e della tutela in mare come pare voglia il nuovo Partito democratico, rimane pienamente valido. Intervento dalle dimensioni enormi, che non può essere affrontato solo dall’Italia come sostanzialmente è avvenuto in Albania, ma che deve essere affrontato dall’Europa nel suo complesso.

Qui, francamente, non si comprende il rifiuto di Elly Schlein e del Partito democratico di condividere la strategia del Piano Mattei di Giorgia Meloni per una cooperazione non predatoria con le nazioni africane, per sconfiggere gli scafisti e per definire canali legali di ingresso in Italia. Strategia peraltro già pienamente condivisa da Marco Minniti, che a ragione ricorda come lui avesse avuto un approccio simile nel 2017 quando era ministro dell’Interno del governo Gentiloni. L’unica ragione che si vede in questa totale estraneità, o meglio ostilità, a interloquire col governo sul Piano Mattei è puramente elettorale, ma di fiato corto.

Qui emerge il secondo punto di riflessione sul quale dovrebbe soffermarsi, ma è ben lungi dal farlo, Elly Schlein. Il successo della normalizzazione dei flussi migratori dall’Albania – lo ripetiamo, un mix di azioni militari di contenimento e di cooperazione allo sviluppo – è stato conseguito nell’arco di venti anni in un contesto sostanzialmente bipartisan. Governi di centrodestra e di centrosinistra, sia pure in una dialettica dura tra maggioranza e opposizione, hanno sostanzialmente perseguito una politica omogenea e coerente nei confronti di Tirana.

Oggi invece Elly Schlein si pone in una posizione di totale estraneità e di rottura completa con le strategie del governo, pare non comprendere che le politiche di esternalizzazione hanno tempi lunghi, decennali, e arriva sino a contestare duramente i tentativi di un accordo quadro tra Italia e Unione Europea con un governo tunisino che vede un Kaïs Saïed campione di correttezza democratica a paragone di quel para criminale di Sali Berisha con cui fecero accordi di blocco navale Romano Prodi e Giorgio Napolitano.

D’altronde, se si applicasse il criterio del rispetto dei diritti dell’uomo e della correttezza democratica non sarebbe possibile siglare accordi di nessun tipo con la quasi totalità dei Paesi africani. Il tutto, peraltro, in posizione di rottura della dinamica del campo largo che vede un Movimento 5 Stelle molto duro nei confronti dell’immigrazione clandestina. Incomprensibile.