Nel conflitto israelo-palestinese parlare per slogan non aiuta a capire: una guida per orientarsi nel dibattito

Il conflitto tra Israele, i palestinesi e i Paesi arabi circostanti è uno dei più complessi, contraddittori e difficili da decifrare di sempre. Torti e ragioni si sommano e si elidono, lutti e offese, rivendicazioni legittime e prevaricazione si alternano dal 1947, anno della prima risoluzione delle Nazioni Unite, che decise una spartizione che non avvenne come era stata pensata. Mai come in questa vicenda non sono accettabili posizioni partigiane e preconcette, polarizzazioni e pregiudizi. Eppure, si continua spesso a discutere con foga per sentito dire, usando slogan ripetuti meccanicamente, che hanno smarrito il loro significato. Slogan che finiscono per inquinare il discorso, rendendo impossibile comprendere le ragioni di ognuno. Abbiamo provato a decrittare le frasi più usate da una parte e dall’altra e a sciogliere nodi che, per loro natura, tendono a farsi più intricati.

«Quelli di Hamas non sono terroristi sono resistenti»
Il parallelo con la resistenza non regge. Se parliamo della resistenza partigiana, questa combatteva contro l’occupazione nazifascista, contro una concezione totalitaria, antidemocratica e liberticida. Hamas è un movimento islamico fondamentalista, che ha instaurato una dittatura religiosa basata su un’interpretazione reazionaria della legge islamica. Come ha detto Federico Rampini, «trovo sconcertante chi scambia per partigiani progressisti quelli di Hamas, che sono portatori di una cultura del fanatismo religioso più reazionario, oscurantista, maschilista, sessista, omofobo». Il suo obiettivo è distruggere il nemico e non condivide con noi nessuno dei valori che riteniamo essenziali in Occidente, a cominciare dal rispetto dei diritti delle donne. Basta leggere i suoi documenti per capire che è un’ideologia che propugna il genocidio degli ebrei.

«Hamas rappresenta i palestinesi, perché è stata eletta democraticamente»
La democrazia nel mondo arabo è sconosciuta. L’unico Stato democratico in Medio Oriente è Israele, dove però i palestinesi con cittadinanza israeliana sono talvolta discriminati e trattati come cittadini di serie B. A Gaza ci sono state elezioni nel 2006, ma si fronteggiavano due movimenti con una concezione autoritaria. Hamas ha usato metodi di intimidazione e se è vero che ha vinto anche perché i gazawi non accettavano più la corruzione e il controllo dell’Olp, è anche vero che un secondo dopo il voto ha ucciso e cacciato i palestinesi avversari, per rimanere dunque il partito unico. Da allora, sono passati 17 anni e non si sono più svolte elezioni.

«La violenza per liberarsi degli occupanti è necessaria»
La concezione della violenza come «levatrice della storia», per dirla con Marx, è ben nota. E non c’è dubbio che in alcuni casi – pensiamo anche alla storia dell’Italia – è stata necessaria per liberarsi dell’invasore. Ma la violenza degli eserciti, delle legittime guerre di liberazioni, è diversa dalla violenza contro i civili, che disumanizza l’avversario trasformandolo in nemico, che si persegue attraverso la tortura e gli omicidi indiscriminati ed efferati contro innocenti. La barbarie, il compiacimento della violenza, non ha nulla a che fare con la lotta di liberazione.

«Anche Israele uccide i civili»
I bombardamenti di Israele uccidono, come gli attentati arabi. La violenza è una regola in quel territorio. Israele la esercita legittimamente in chiave difensiva, ma talvolta senza adottare criteri di proporzionalità e continenza. Un atteggiamento che si può spiegare con la storia di Israele, un piccolo Paese circondato da Stati che ne hanno chiesto la distruzione per decenni, combattendo guerre sanguinose. Nella storia di Israele ci sono poi diversi episodi che si possono ricondurre ad atti di violenza collettiva. Il primo è il massacro di Deir Yassin, avvenuto il 9 aprile 1948, quando 254 civili, tra cui donne e bambini, furono uccisi da combattenti sionisti dell’Irgun e della Banda Stern che entrarono nel villaggio palestinese. Il secondo è la bomba che distrugge nel 1946 l’hotel King David, a Gerusalemme, attentato compiuto dalle bande guidate da Menachen Begin, diventato in seguito primo ministro. E poi il massacro di Sabra e Shatila, in Libano, commesso dalle milizie cristiane maronite libanesi, con la complicità passiva dell’esercito israeliano.

«Hamas lotta contro l’occupazione israeliana, come gli ucraini contro l’invasione russa»
Le similitudini storiche hanno il difetto di essere spesso imprecise e fuorvianti. Questa lo è particolarmente. Gli ucraini hanno uno Stato indipendente che è stato invaso dalla Russia. Senza giustificazione alcuna, che non sia una rivincita tardiva per l’umiliazione subita con la fine dell’Unione sovietica e il tentativo di evitare un’eccessiva avanzata della Nato ai confini. Ma l’attacco non è stato provocato e fa capo all’imperialismo russo e alla volontà di potenza di Putin e non a esigenze di giustizia. Israele è uno Stato legittimo, riconosciuto dalle Nazioni Unite con la risoluzione 181 del 1947, che aveva deciso la spartizione del territorio con la nascita anche dello Stato di Palestina. Quest’ultimo fu rifiutato dagli Stati arabi che decisero di sferrare una guerra contro il neonato Stato di Israele, perdendola. Torti e ragioni, in questo caso, si alternano e si sommano, nel ciclo di una storia che va vista nella sua complessità. Ogni aggressione e reazione va inquadrata nel contesto storico.

«Israele ha il diritto di difendersi»
Ogni Stato ha il diritto di difendere i propri confini e i propri cittadini. Ma, come hanno detto praticamente tutti gli attori internazionali, occorre che la reazione sia continente e proporzionata all’offesa. È il concetto della legittima difesa, applicata agli Stati. In questo caso, Israele è circondato da nazioni ostili e spesso la difesa preventiva è un’arma necessaria, come è accaduto nella guerra dei sei giorni del 1967. Ma una reazione eccessiva che sconfini nella punizione collettiva – che va oltre i «danni collaterali», ovvero un numero limitato di vittime civili coinvolte nell’obiettivo militare -, non è ammessa dall’articolo 33 della quarta Convenzione di Ginevra.

«Gaza era un territorio libero, prima dell’attacco di Hamas»
Israele nel 2005 ha liberato completamente la striscia di Gaza, smantellando i 21 insediamenti e riportando sul suo territorio 8.500 cittadini israeliani, su volontà del primo ministro Ariel Sharon. Il «disimpegno», come fu chiamato, fu un trasferimento dei coloni in parte libero e incentivato e in parte forzato, che non fu indolore per il Paese. Ma Israele mantenne il controllo delle frontiere marittime e terrestri e dei valichi, escluso quello di Rafah, di competenza egiziana. Gaza dipende da Israele per acqua, elettricità e comunicazioni. Dopo le elezioni del 2006, Hamas ha preso il controllo. Israele ha deciso il blocco, non facendo più entrare e uscire merci e persone. Più che un territorio libero, per effetto combinato del regime islamico di Hamas e del blocco israeliano, la striscia di Gaza è diventata una sorta di prigione.

«Gli ebrei hanno occupato la Palestina»
In Palestina viveva una grande maggioranza di arabi e alcuni ebrei che si erano stabiliti a partire dal 1878, con la prima colonia ebraica di Petah Tiqwa. Come scrive Maxim Rodinson, nel 1880 gli ebrei erano 24 mila su una popolazione di mezzo milione. I pogrom in Russia fecero crescere il numero degli arrivi. Prima del ‘47 cominciò un afflusso di ebrei che entrarono in possesso della terra, comprandola legalmente dai proprietari arabi. Al momento della spartizione del 1947, però, gli ebrei controllavano solo il 7 per cento della Palestina del mandato inglese. A quel punto, con la Nakba (la Catastrofe, per i palestinesi), come ha rivelato lo storico israeliano Benny Morris, la gran parte dei palestinesi (se ne andarono in 700 mila) fu cacciata con la forza o costretta a lasciare le proprie case.

«I palestinesi non esistono»
Fino all’arrivo degli ebrei, la popolazione del territorio non aveva un’identità definita come nazione. Il nazionalismo arabo nasceva negli stessi anni e quello palestinese è stato un riflesso successivo, di reazione all’omologa corrente israeliana, che ha contribuito a formare un popolo, così come si è creato dalla diaspora ebraica (incentivato dai progrom e della Shoah) il popolo israeliano. La sintesi del pensiero dei primi sionisti, a fine ‘800, è racchiusa nella formula: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra». Così la pensava Golda Meir, che ancora negli anni ‘70 diceva: «Quando mai c’è stato un popolo indipendente con uno Stato palestinese?». Ancora adesso il leader del partito di estrema destra Bezalel Smotrich sostiene che i palestinesi non esistono. Ma con il nazionalismo, non più panarabo ma palestinese, nato anche dall’ostilità di molti Paesi arabi confinanti (vedi il Settembre nero del ‘70, in Giordania), con le guerre, le intifada e l’amministrazione di Cisgiordania e Gaza, si è consolidata sempre di più l’identità del popolo palestinese.

«I palestinesi si son sempre rifiutati di fare la pace»
Nel ‘47, gli arabi di Palestina e i Paesi confinanti rifiutarono la risoluzione dei due Stati e attaccarono Israele. Per decenni, nelle carte e nell’ideologia dei palestinesi c’è stato un rifiuto totale del sionismo e dello Stato d’Israele, di cui si è invocata la distruzione, con continue aggressioni e guerre. Ma negli ultimi decenni, prima con gli accordi di Camp David del 1978 poi con gli accordi di Oslo del 1993, palestinesi e israeliani hanno provato in misura altalenante e contraddittoria la via della pace e della coesistenza. Ma i palestinesi hanno adottato spesso atteggiamenti ambigui. E gli israeliani, governi laburisti compresi, attraverso la politica degli insediamenti, hanno reso sempre più impraticabile la soluzione dei due Stati.

«Io non sono antisemita, sono antisionista»
La parola «sionista» è stata usata in senso quasi spregiativo per molti anni, in alcuni ambienti della sinistra pro Palestina. Dall’altra parte, si è spesso associato l’antisionismo all’antisemitismo. La parola «sionismo» indica il movimento fondato da Theodor Hertzl, in reazione all’affaire Dreyfuss, e viene teorizzato nel libro «Lo Stato ebraico», nel 1896. Con il sionismo ci si proponeva di assegnare una terra, una patria, una nazione, al popolo ebraico. Non necessariamente la terra di Israele, all’inizio, visto che furono presi in considerazione anche Uganda e Argentina. Poi si scelse la Palestina e dal 1948 il sionismo si è materializzato nella creazione dello Stato di Israele. Dirsi «antisionista» oggi, dunque, vuol dire professarsi contrari all’esistenza di Israele. È come se qualcuno oggi fosse contrario all’esistenza dell’Italia e magari puntasse a distruggerla.

Antisionismo, certo, non equivale necessariamente ad antisemitismo. Molti ebrei ultraortodossi (il movimento Satmar e il gruppo Neturei Karta) erano e sono contrari a un’entità statale per il popolo ebraico, tanto che si rifiutano di servire nell’esercito. Ma è chiaro che talvolta l’antisemitismo si maschera dietro l’antisionismo. I terroristi che combattono contro Israele attaccano in tutto il mondo gli ebrei, non solo gli israeliani. I confini rischiano, insomma, di essere labili.