(SENTIERI SELVAGGI) Raccontiamo da anni come il documentario abbia assunto un ruolo centrale nel panorama contemporaneo. Da una parte, si fa genere meticcio, sempre pronto a contaminarsi, a mutare con ogni incursione del reale nel mondo della finzione (e viceversa). È anche in grado, però, di assumere il ruolo contrario. Diventa, così, dimostrazione di una pratica cinematografica che in alcuni casi si fa protocollo chiuso, una procedura autoriferita e da seguire passo dopo passo, il cui risultato è stato calcolato già con largo anticipo. Ecco, con Io, noi e Gaber, diretto da Riccardo Milani e presentato alla 18ª Festa del Cinema di Roma, si imbocca con decisione proprio questa seconda strada.
Per raccontare la vita e la carriera di Giorgio Gaber, un artista obliquo e apolide come pochi altri, viene scelta la strada più dritta che ci sia. La dimensione collettiva del titolo si rifà chiaramente alla pletora di interviste presenti in Io, noi e Gaber, con personaggi che lo hanno conosciuto e ci hanno collaborato (Sandro Luporini, Gianni Morandi, Mogol), che ne sono stati influenzati (Jovanotti e Fulminacci) o che ne sono stati semplicemente ascoltatori attenti (Fabio Fazio, Michele Serra, Pierluigi Bersani). A fare da contrappunto ci sono le apparizioni televisive di Gaber, con il materiale d’archivio che rappresenta il punto d’interesse maggiore del documentario. A decenni di distanza, certe sequenze conservano un fascino alieno, come si venisse irradiati da un segnale sconosciuto e inaspettato. Lo svago e l’intrattenimento che si trasformano davanti ai nostri stessi occhi.
Le sorprese di Io, noi e Gaber finiscono qui. I discorsi portati in scena raramente vanno oltre una nostalgica elegia di ciò che fu e non potrà più essere. Così tanto che non emerge la persona di Giorgio Gaber, viene piuttosto ritagliata la sua immacolata figura. Un aspetto quantomeno problematico, visto che il soggetto che si vuole raccontare ha incarnato e cantato proprio una fondamentale rottura nei confronti del mondo e della rappresentazione di esso. La sua musica, i suoi spettacoli e lui stesso hanno indagato ed esplorato questa cesura, come farebbe uno speleologo con un crepaccio sconosciuto che, chissà, potrebbe rivelare enormi spazi nascosti. Ecco, Milani e Io, noi e Gaber sembra invece voler ricucire la ferita, riconciliando l’icona con un ambiente circostante che aveva preso a picconate finché ha potuto. Esemplare, da questo punto di vista, il tentativo finale di assorbire l’onda d’urto di un pezzo come La mia razza in estinzione. Ecco Io, noi e Gaber cerca di truccare il risultato e fallisce nel vedere gli enormi spazi di libertà che solo una sconfitta può spalancare.
Potrò guardare dentro al suo cuore,
E avvicinarmi al suo mistero,
Non come quando io ragiono
Ma come quando respiro
(Giorgio Gaber & Sandro Luporini, Quando sarò capace di amare)
(frasco) Il regista Riccardo Milani nel 2023 racconta Gaber (1939-2003) facendo parlare troppo la famiglia e poi Morandi, Mogol, Fossati, Jovanotti… Che cosa abbiano a che fare con Gaber Capanna e Bersani (simboli del ’68 e di quale sinistra?) resta un mistero. L’unico che ne può parlare a ragion veduta è Michele Serra, perchè da anni guarda la realtà italiana con ironia e dissacrazione. Ne potrebbero parlare Baricco, Francesco Merlo, Bartezzaghi, Aldo Grasso, perchè non ci sono più Eco, Ettore Scola e Berselli.
Gaber col teatro-canzone ha inventato un genere che ha rivoluzionato lo spettacolo italiano, si è ritagliato una forma artistica che non a caso è stata un unico. Dopo di lui più nessuno.
La sua è la storia di un cantante che dopo aver praticato la tv e i cantautori diventa un intellettuale il cui scopo di tutta una vita (breve) diventa quello di far saltare in aria le ideologie. Gaber è stato un dinamitardo, che ha messo le bombe (con Sandro Luporini) sotto i cantautori alla Fossati, la politica di sinistra ipocrita e da Ztl (oggi alla riscoperta dell’identità!), la borghesia consumista, il dirittismo (pensiamo cosa avrebbe detto oggi della politica woke).
Se sapessi parlare di Maria/ se sapessi davvero capire la sua esistenza/ avrei capito esattamente la realtà/la paura la tensione la violenza/Avrei capito il capitale e la borghesia/ma la mia rabbia è che non so parlare di Maria
Io sono diverso
io cambio poco
cambio molto lentamente
non riesco a digerire
i corsi accelerati da Lenin all’Oriente
E anche nell’amore
non riesco a conquistare la vostra leggerezza
non riesco neanche a improvvisare
o a fare un po’ l’omosessuale
tanto per cambiare.
Quando è moda è moda quando è moda è moda.
Pensate con una sinistra che si affida a Schlein cosa c’entrasse uno come lui che riteneva fosse un lavoro persino la monogamia, insomma, se tutte queste cose che ho elencato in ordine sparso non vengono considerate, non si può capire la “persona” Gaber, e ci si limita all’artista. Ogni artista o intellettuale fa cose diverse, ognuno sceglie quello che ritiene più interessante o stimolante (non è che tutti i film di un Fellini siano tutti capolavori) e quindi anche Gaber è stato molto amato ma poco “compreso”. Infatti Milani ha fatto un film iconografico su un iconoclasta, un film retorico su un antiretorico, un film convenzionale su un anticonvenzionale.
Una sinistra manichea ogni volta alle prese col suo nemico da allarme democratico non è riuscita a capire per esempio come abbia fatto ad accettare che la moglie si presentasse con Forza Italia. Gaber ha inteso testimoniare che nella sua relazione esistevano rispetto e reciproca autonomia. Una sinistra “che non sa parlare di Maria” perchè tutto è sempre bianco o nero, non poteva capirlo nel 2000 così come non lo capisce ancora adesso.