Ho fatto più io, per la sinistra, con ‘Chi l’ha visto’, che Gramsci con i suoi Quaderni”, amava ripetere immodestamente Angelo Guglielmi. Ma quella Rai Tre lì, fiore all’occhiello della lottizzazione perfetta, la rete intelligente che “faceva cose per la sinistra”, come per esempio accorciare la forbice tra la diffidenza comunista e la televisione pop, è davvero finita per sempre. Trentasei anni dopo, di quella rivoluzione televisiva, della galassia della “terza rete”, come si diceva allora, non resta più nulla. Al massimo qualche figlio illegittimo, qualche detrito a forma di “Report” che ora se la gioca col cognac & carota di Gasparri in commissione di vigilanza (di gran lunga il miglior show della Rai tolkieniana). L’uscita di scena di Corrado Augias qualche giorno fa, che di quella rete fu pioniere e conduttore storico, e che oggi, a ottantotto anni se ne va a La7 in cerca di nuovi stimoli (beato lui), ha qui un valore altamente simbolico. Parliamo di un giornalista, scrittore, intellettuale, uomo televisivo immortalato in celebri foto in bianco e nero con Kennedy. Uno, insomma, che non deve dimostrare niente a nessuno, ma che pure sente l’esigenza di incorniciare la sua partenza dentro la fine di un’èra. Nell’epurazione soft della nuova Rai, oramai vissuta come tragedia permanente, e qui con lo spauracchio di Baricco come sostituto, che non sarebbe poi una gran catastrofe. “L’egemonia culturale non si può imporre piazzando un fedele seguace qua e uno là”, dice Augias (in realtà si fa anche così, però ci vogliono sei o sette generazioni per vederne gli effetti). E ancora: “Volevano demolire la Rai dei comunisti, stanno semplicemente demolendo la Rai”.
I comunisti, l’egemonia culturale. Di nuovo il ritornello, oramai cliché insopportabile, che dai quaderni di Gramsci si è fatto ossessione della destra italiana col complesso dei “peggiori,” e che almeno in Rai, almeno sin qui, non è che abbia portato proprio bene (moratoria: sospendere l’uso di “egemonia culturale” e “narrazione del paese”, almeno un anno, specie durante Sanremo e dintorni, pietà). Casomai, più che Gramsci sarebbe opportuno citare Manzoni: l’egemonia culturale se uno non ce l’ha, mica se la può dare, e chiuderla lì. L’egemonia culturale del resto evapora. Da anni Rai Tre viene smontata e rimontata tale e quale a La7 e Discovery, che si riprendono così tutti i target della vecchia sinistra televisiva. Ora con Augias l’operazione può dirsi completata: target giovane/giovanilistico (“Propaganda Live”, dandinismo per millenials, ma con meno satira e più sermoni); target middlebrow-professoresse democratiche (Fazio, Gramellini, Crozza); trono over (Augias).
Ma spostandosi Rai Tre diviene altro, e poco, pochissimo resta della Rai Tre che fu. Era stata una rete certo comunista, come da accordi e da programma, ma dove poi tutto prese a mescolarsi con tutto, trasformandola anche in un’altra cosa. Perché l’egemonia fa dei giri immensi, si sfalda, prende sentieri imprevedibili, a volte sfugge di mano. Come molti della mia generazione, diventai anche io target potenziale di Rai Tre più o meno allo scadere degli anni Ottanta, primi Novanta. Quindi incomprensibili e rarefatti monologhi fuori-sync di Ghezzi, “Blob”, Ciprì, Maresco, “Cinico Tv”, Serena Dandini e i Guzzanti Brothers, Chiambretti postino che recapitava lettere a Fellini o Cossiga. E poi la Rai Tre senior, più genitoriale: “La cartolina” di Andrea Barbato (ah che stile! ah che compostezza! ripeteva sempre mio padre), e “Mi manda Lubrano”, “Chi l’ha visto”, “Harem”, “Telefono giallo”, “Linea rovente” con Giuliano Ferrara, “Milano, Italia”, Santoro, naturalmente. Santoro a parte, erano tutte cose che piacevano anche ai non comunisti. A chi il Pci non l’avrebbe votato mai e poi mai, neanche sotto tortura (l’egemonia fatta bene funziona così: non te ne accorgi, non si vede, è come la pubblicità dentro i film).
Soprattutto, tra i ricordi indelebili delle serate in famiglia davanti Rai Tre, resta ancora oggi impressa la lugubre sfilata di imprenditori e politici della Prima Repubblica, messi sotto torchio da Di Pietro. Fluviali e ipnotiche puntate di “Un giorno in pretura” che ogni settimana aggiornava la conta degli indagati e dei caduti nelle grinfie di Mani pulite. Una sfilata di facce contrite, provate, stanche, su cui infierivano senza pietà i primi piani delle telecamere. Il nostro court-room drama collettivo. Il grande spettacolo delle tangenti. Il film dilatato e iperrealistico che raccontava il disfacimento in presa diretta di un sistema di potere, solleticando sotto sotto, ma neanche troppo, il fascino sadico della gogna. “Un giorno in pretura” durante Mani pulite era però Rai Tre in purezza: cronaca, informazione, spettacolo, storia in diretta, o meglio assemblata come una diretta, grazie al lavoro degli autori. “La realtà raccontata con la realtà”, diceva Guglielmi, riprendendo la suggestione da Pasolini. “Tv verità” diranno tutti gli altri. Termine scivoloso, vago, ambiguo, perché “verità” e “tv” andrebbero sempre tenute a dovuta distanza.
Con Angelo Guglielmi e la sua squadra (tra cui Stefano Balassone, Enrico Ghezzi, Lio Beghin, autore-ideatore di “Telefono giallo”, “Linea rovente”, “Chi l’ha visto?” e tutto il filone “tv verità”), la rete passò dalle miserie del due al dieci e oltre per cento di share. Trovò un suo spazio infilandosi in un sistema televisivo dove all’epoca Rai 1 e Canale 5 si dividevano da sole più del cinquanta per cento di share. Specie con Santoro, quella Rai Tre scoprì che le piazze non erano più una cornice scenografica ma il vero “medium” dell’epoca, un flusso portentoso non più canalizzabile dentro i partiti. Rai Tre non era più comunista o comunista e basta, come il Tg di Sandro-Telekabul-Curzi. Rai Tre era una piccola Rai nella Rai. C’era ancora qualcosa dei grandi quadri del Pci, la tradizione, il partito o quel che ne restava (Curzi), ma era ormai la rete della nuova scapigliatura intellettual-letteraria smaniosa di mettersi in gioco con la tv popolare (Guglielmi). L’informazione e la satira divennero i suoi pilastri. Una rete “popular chic”, dissero allora i creatori di Rai Tre, per proclamare anche loro una qualche linea editoriale. La compiuta realizzazione visivo-scenografica di questo “popular chic” fu affidata allo studio di architettura di Vittorio Gregotti e Pierluigi Cerri, cui poi si aggiunse Anna Maria Testa: via i tetri fondali ministeriali, il grigiore, la patina burocratica e professorale, dentro le belle annunciatrici che giocavano coi gomitoli di lana. Con Rai Tre, come con Arbore, in molti scoprirono che si poteva guardare la tv senza sentirsi scemi. Apprezzare la comicità di Rai Tre, anche non cogliendo tutti i riferimenti “meta” e “post” ironici, apprezzare la sua programmazione culturale, anche smarrendosi e sbadigliando nei notturni calembour cinefili della brigata Ghezzi, significava sentirsi più intelligenti degli altri, per esempio di quelli che non uscivano dal recinto di “Mai dire gol”. Eccomi, spettatore di Rai Tre, parte di una comunità catocombale e carbonara, mentre guardo l’odiata televisione, sì, certo, ma con “spirito critico”, e sotto l’ombrello protettivo di Angelo Guglielmi.
Ma Rai Tre era culturale, anzi colta senza essere pedagogica, e questa era la sua forza. Nessuna idea lugubre e parruccona di cultura come prosecuzione dei compiti a scuola, ma vitalità, provocazioni, divertimento e détournement, come nei finti spot di Angela Finocchiaro, come nella parata di personaggi di “Avanzi”. L’apoteosi di questa Rai Tre imprevedibile e underground furono per me i Nirvana a “Tunnel”. Serena Dandini e Kurt Cobain, insieme, come un’allucinazione, come in quella foto che gira sui social con Mastella e Lenny Kravitz, solo che all’epoca non c’erano i social. I Nirvana suonavano davanti a questo tunnel di cartapesta, una metropolitana non finita, grande anticipazione dei lavori della Metro C. Passò alla storia come l’ultima apparizione pubblica di Kurt Cobain. Un mese dopo si sarebbe sfracellato il cervello sparandosi in bocca con il fucile, a casa sua, a Seattle. Era il 1994. Che è anche l’anno in cui finisce la Rai Tre guglielmina. Molti direttori e molte Rai Tre vennero dopo. La Rai Tre di Minoli e “Un posto al sole”. E poi Fazio, “Quelli che il calcio”, “Che tempo che fa” e “Vieni via con me”, con gli elenchi di Saviano, Benigni, Nichi Vendola, tempio dell’antiberlusconismo da prima serata, divenuto nel frattempo dogma della rete, trasmissione che però era prodotta da Endemol, all’epoca società della galassia Mediaset, cioè da Berlusconi. La Rai Tre di Lucia Annunziata, ma anche quella del “Processo del lunedì” di Biscardi. La Rai Tre di Mirabella e “Elisir”, la Rai Tre di “Gazebo”, prequel di “Propaganda Live”. Anche l’esperimento di una Rai Tre renziana, vagamente modellata sulla Leopolda, una Rai Tre alla milanese affidata a Daria Bignardi, esperienza non proprio memorabile, di cui si ricorda una tediosissima riproposizione del “Rischiatutto” con Fazio, tipo museo delle cere.
L’identità di brand di Rai Tre, come dicono quelli bravi, è sempre stata legata a doppio filo all’informazione, all’approfondimento giornalistico, alla trasformazione della cronaca in “racconto” e alla satira. Accecata dall’antiberlusconismo la satira è poi via via invecchiata, fino a sparire del tutto dalla rete. Rivive un po’ di cultura allungata con due o tre cucchiaini di satira in “Splendida cornice” con Geppi Cucciari, ma non c’è proprio nulla, fatta salva la bravura della conduttrice, della surreale e imprevedibile Rai Tre di una volta. La vocazione al giornalismo d’inchiesta è invece stata tutta risucchiata da “Report”, ultimo approdo per lo spettatore rabbioso delle vecchie piazze di “Samarcanda”, slittamento dalla “tv verità” alla “tv indignata”. “Report” è una fiction dal vero. Una struttura narrativa che “mette in scena” gli eventi, come all’epoca di “Telefono giallo”, come in “Chi l’ha visto”, ma con la convinzione dogmatica del giornalismo d’inchiesta che si vuole libero e senza padroni e che si batte per la verità. Oggi “Report” insieme a “Un posto al sole” si divide il grosso degli ascolti della rete (si osanna sempre Guglielmi, non si ricorda mai abbastanza la creatura di Minoli, la nostra soap immortale, pilastro di un’altra Rai Tre, non politica, non resistente, non da primi della classe). Insomma, poco resta. Anche se la “passeggiata per la libertà di stampa” al Pantheon, con Ranucci che va in commissione di vigilanza scortato da Conte e Landini in difesa del giornalismo d’inchiesta, sembra uscita dal “Caso Scafroglia” di Guzzanti & Co.
Certo non può esistere una Rai Tre tolkieniana. Soprattutto se prende le sembianze di “Avanti popolo”, format sbagliato, al momento sbagliato, nel posto sbagliato, scritto male sin dal concept della trasmissione, che si può leggere su Rai Play: “L’attualità, la quotidianità, con i suoi temi e problemi da affrontare ogni giorno, discussi in studio dal popolo. Protagonista indiscusso il popolo: quello che ha fatto la storia, ma anche quello che l’ha subita”. Ecco, quel micidiale “problemi discussi in studio dal popolo” è un passaggio che sembra davvero la nemesi, il rovesciamento perverso, l’incubo di quei Quaderni di Gramsci sfoderati da Angelo Guglielmi. Una punizione, forse. Rai Tre è oggi intrappolata nei suoi vecchi fantasmi, la vocazione culturale, la missione giornalistica dell’inchiesta, la rappresentanza della parte indignata del paese. Oppure terra di conquista per vendette incrociate, egemonie e controegemonie. Battaglie vecchie, anacronistiche, per un modello di televisione che non c’è più. Del resto, dopo aver a lungo inseguito il “modello Bbc”, soprattutto ai tempi euforici del tutto-nuovo e tutto-subito di Renzi e Campo Dall’Orto, la Rai pare ormai orientata su un più abbordabile e sicuro “modello Alitalia”. Perdere pezzi, spettatori, programmi, anchorman, icone. Poi magari vendere tutto il pacchetto a Netflix, risanare un po’ il debito pubblico e chissà, pagarci anche le pensioni ai millennials (sarebbe comunque una strategia, parliamone).