Eppure si ricomincia sempre da capo. Oggi giornali e tv sono pieni di analisi, pareri e contropareri intorno a una riforma costituzionale (contenente anche un discutibile riferimento al sistema elettorale) che se tutto va bene, si fa per dire, potrebbe andare a referendum nel 2025. Cioè a poco meno di dieci anni dal referendum sulla riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi, bocciata dagli elettori nel 2016, cioè giusto dieci anni dopo il referendum sulla riforma costituzionale voluta da Silvio Berlusconi, bocciata dagli elettori nel 2006, cioè circa otto anni dopo il fallimento del grande disegno riformatore promosso dalla commissione bicamerale guidata da Massimo D’Alema, tra 1997 e 1998. Commissione nata peraltro con l’esplicito obiettivo di mettere finalmente un punto all’interminabile diatriba su riforme istituzionali e leggi elettorali innescata dai referendum dei primi anni novanta (in particolare con la vittoria del quesito che di fatto, nel 1993, introduceva in Italia il sistema maggioritario). Gli stessi sono i fatti, oggi come ieri, la stessa dunque è la mia domanda: quanto ancora abbiamo intenzione di andare avanti così?
In questi trent’anni il dibattito non ha avuto alcuna evoluzione. Siamo sempre lì a discutere di turno unico o doppio turno, premio di maggioranza alla coalizione o alla lista, semipresidenzialismo alla francese o premierato all’israeliana, governabilità contro rappresentanza, efficienza contro autoritarismo, palude contro uomo solo al comando: persino i luoghi comuni sono sempre gli stessi. In trent’anni non sono cambiate nemmeno le frasi fatte, gli slogan, il lessico con cui parliamo di tutto questo.
Per uscire da un vicolo cieco c’è un solo modo: fare marcia indietro. Non basta però la capacità di vedere il muro davanti a noi, occorre anche l’onestà di riconoscere che abbiamo sbagliato strada.
Originariamente, questa larghissima maggioranza convinta della necessità di impiantare modelli istituzionali ed elettorali di altri paesi muoveva da un’esigenza giusta e incontrovertibile: quella di dare finalmente anche all’Italia una normale alternanza di governo, uscendo dalla democrazia bloccata del quarantennio precedente. Ma il bello è che questa sacrosanta battaglia si scatenava giusto nel momento in cui non era rimasto in campo un solo nemico, quando cioè il problema della democrazia bloccata si era già risolto da sé, con la caduta del muro di Berlino, la fine del comunismo e dunque anche la fine dell’inamovibilità della Democrazia cristiana dal governo.
Essendo scomparsi per cause naturali i veri ostacoli che impedivano l’alternanza, si è deciso che la colpa era del sistema proporzionale (attribuendogli per soprammercato persino la responsabilità della corruzione scoperchiata in quel momento dall’inchiesta Mani Pulite) e si è celebrato un bel referendum per cancellarlo. Al suo posto, ci s’immaginava di poter costruire il bipartitismo anglosassone, poi atrocemente tradotto nel nostro bipolarismo di coalizione, sistema non a caso sconosciuto a qualunque paese democratico, con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi.
Da allora in poi, come notava da ultimo l’Economist, ogni maggioranza ha cercato per prima cosa di cambiare le regole (elettorali e istituzionali) a proprio vantaggio. Il che – aggiungo io, perché figurati se lo avesse detto l’Economist – è una tipica caratteristica di quei paesi che un tempo si sarebbero definiti del terzo mondo, diciamo pure delle democrazie più fragili.
Dopo trent’anni, è ora di fare marcia indietro, dichiarare definitivamente fallito il confuso progetto della Seconda Repubblica, tornare al proporzionale e alle regole fondamentali della democrazia parlamentare, ma soprattutto finirla con questo delirio, con questa vera e propria ossessione regolistica, che ha assunto ormai aspetti grotteschi.
Non so in quanti paesi esista un ministero per le Riforme istituzionali. So che in Italia è stato istituito dal governo Goria, nel 1988. Una cosa, comunque, è sicura: quando abbiamo cominciato questa discussione ancora non esisteva Internet.
Qualcuno ci aiuti.