Dello spettacolo gratis di Grillo da Fazio, la cosa più divertente è stata il dopo. Vedere come vedove, orfani ed eredi del Grillo che fu hanno usato il Grillo che avanza per darsi ragione.
Casaleggio junior per concludere che il «Movimento non c’è più» e la «democrazia dal basso» neppure, ma lui l’aveva già detto, prima di Grillo. Andrea Scanzi per rendere omaggio al «sublime animale da palcoscenico», inumando il suo cadavere politico. Giuseppe Conte per elogiare la performance e gli ascolti del “grandissimo mattatore”, come se parlasse di Checco Zalone.
L’impressione è che Grillo non sappia cosa fare di sé, mentre i suoi sanno benissimo cosa fare di lui. Incoraggiarlo a levarsi dai piedi, riportarlo a fare il matto o il minchione nei teatri e in tv: Beppe facce ride, ché questo sai fare.
Oggi Grillo serve a poco, in effetti, ai progetti di “rifondazione grillina”, che i duri e puri delusi del sansepolcrismo vaffanculista ogni tanto vagheggiano e non serve a nulla alla continuità post-grillina di Conte, questo ibrido tra Forlani e Pol Pot pescato nella riserva tecnica di Dj Fofò, finito a Palazzo Chigi perché non sapevano chi mandarci e passato rapidamente da un servile lecchinaggio sovranista, che aveva aperto il cuore di Donald Trump, a un mostruoso doroteismo berlingueriano, che ha fatto tanto innamorare la sinistra e il Partito democratico.
Se però Grillo è il vero perdente della storia grillina, tra chi non gli perdona di essersi normalizzato e chi, al contrario, gli rimprovera di non averlo fatto e di stare ancora lì a disturbare o a imbarazzare i manovratori, rimane purtroppo il trionfatore della storia politica italiana dell’ultimo decennio.
La sua, con rispetto parlando, egemonia culturale; la sua capacità di forgiare un senso comune politico non solo diffuso, ma prevalente; la forza con cui ha dimostrato che il “voto contro” può non essere il mugugno delle minoranze sfigate, ma il tumulto delle maggioranze prepotenti; la sfrontatezza con cui ha trasformato il complesso di inferiorità psicologico legato a qualunque tipo di disagio in un senso di superiorità politico altrettanto disagiato, ma dirompente; la superbia con cui ha reso la politica una pratica alchemica e un rito propiziatorio, “srazionalizzando” tutto e tutti convincendo che la verità delle cose stia solo nell’originaria purezza dell’ignoranza e nella sconfinata grandezza dei suoi miraggi.
La politica che conta, dopo Grillo, è tutta grillina. È il ripudio di ogni realtà e l’inseguimento di ogni illusione dettata dalla paura, dalla disperazione e dal pregiudizio. Luca Bottura ha scritto che Grillo è un Berlusconi che non ce l’ha fatta. Sbagliato. Grillo è un Davide Vannoni che ce l’ha fatta. Se Vannoni, con il cosiddetto “Metodo Stamina”, proponeva cure miracolose che diventavano credibili proprio per il fatto di non essere accettate dalla medicina ufficiale, che infatti si arrendeva di fronte a malattie incurabili, Grillo ha spacciato il miracolo della fuoriuscita della democrazia da sé stessa come guarigione da tutti i mali, risarcimento di tutti i torti, punizione di tutti i colpevoli.
Vannoni ha provato a convincere gli italiani che la vera malattia era proprio la medicina tradizionale, con la sua razionalità catturata da conflitti di interessi occulti, sordidi, mortiferi… Grillo, mutatis mutandis, c’è riuscito. La politica non è la soluzione, ma il problema. La democrazia è la maschera della fazione e della soperchieria, che divide la naturale unità del popolo.
Che poi a farne simulacro sia, come nelle distopie di Casaleggio, il formicaio della piattaforma Rousseau o, come nella retorica della cognata d’Italia, la mistica di “questa nazione”, in fondo fa poca differenza.
La politica è a immagine e somiglianza dei deliri di questo cretino di talento, per cui essere tutti uguali vuol dire essere tutti indistinguibili.