La restanza e i restanti per caso

L’Accademia della Crusca, l’istituzione che raccoglie studiosi ed esperti di linguistica e filologia della lingua italiana, inserisce tra le “Parole nuove” il termine “restanza”. Forma non inedita, utilizzata fin dal Trecento per indicare “ciò che avanza, rimanenza, resto”, che negli ultimi anni però si è arricchita di senso e significato grazie, soprattutto, all’opera dell’antropologo di San Nicola da Crissa Vito Teti, già ordinario di Antropologia culturale all’Università della Calabria, che nel 2022 ha dato alle stampe il saggio omonimo, “La restanza”, edito da Einaudi. Libro giunto alla quinta ristampa.

Vito Teti, dopo la scomparsa del prof. Nuccio Ordine, resta uno dei letterati calabresi più significativi ed importanti per i suoi studi, tutti gli altri essendo scienziati, e devo dire che il termine, appena lo lessi, mi è sembrato un’illuminazione geniale. Nel suo saggio, nella sua parte più intima, Teti ha interrogato personalmente ognuno di noi sul nostro modo di vivere il tempo, di abitare la casa in cui siamo, il paese/città in cui viviamo, la nazione di cui siamo cittadini. Poi collega noi, l’ultima propaggine di Sapiens, ai nostri antenati, e vede tra noi e loro qualcosa che ancora incredibilmente ci unisce: la dicotomia tra andare e restare. Infine invita noi lettori a ripensare il significato delle parole che usiamo. Teti ci costringe a calarle in un contesto nuovo e diverso; a riguardare alle nostre esperienze, anche quelle minime, come il possibile tracciamento di una nuova avventura antropologica.

Circa le mie esperienze minime io ricordo ormai solo quelle simboliche. Negli anni settanta un minuscolo gruppetto extraparlamentare di sinistra a Nicastro protestò perchè venne smantellato dal nuovo proprietario lo storico ingresso su Corso Numistrano della farmacia Mastroianni, per ammodernarla. Nonostante quindi da molto tempo ci sia stato in me e in quelli che frequento uno struggente attaccamento ai luoghi così come i nostri antenati ce li hanno lasciati (a cominciare per quel che mi riguarda al centro storico e ai due corsi che caratterizzano Lamezia nella penisola) noi siamo “restanti per caso“,  non per scelta o convinzione.

Io avevo lasciato la Calabria ma la sorte mi portò a vivere a Bordighera (io tra le sedi disponibili avevo espresso preferenze per Cles, Urbino, e Bellaria) su assegnazione del Ministero dell’Istruzione, dove un preside senza casa di proprietà non può vivere con la famiglia, essendo Bordighera un posto per ricchi, dove i lombardi hanno la seconda casa. Così tornai a Lamezia perchè sempre la sorte volle che si fosse liberata la sede nella scuola dove avevo insegnato. Voglio dire, raccontando queste cose, che la vita è fatta di sliding doors che si aprono e chiudono senza che tu possa farci niente, ma anche di costo della vita e scelte prettamente economiche che spiegano il fenomeno dei dipendenti pubblici meridionali che assunti al Nord poi tornano al Sud per il costo della vita (e poi da pensionati vanno in Portogallo).

Le restatine calabresi sono fatte, io credo, di molti come me che non avevano nessuna voglia di restare o di tornare, ma che solo il caso ha fatto tornare. Le radici, come si usa dire, rimangono sempre, così come l’attaccamento ai luoghi, alla casa, alla famiglia, ai ricordi. Ma noi restanti per caso non amiamo affatto vivere in Calabria, soffriamo la Calabria politica e quella affaristica, la Calabria massomafiosa senza sanità, urbanistica, scuola, amiamo solo il costo della vita. L’unica consolazione rispetto agli anni settanta è che la mafia che domina le nostre umili vite calabresi adesso è presente allo stesso modo in Val d’Aosta o nel nord d’Italia (Sciascia la chiamava la sicilianizzazione dell’Italia) per cui sfuggire alla mafia lasciando lo stivale oggi è ingenuo.

Ma lavoro per i giovani da noi non c’è e quindi lo spopolamento dei paesi dipende dai giovani che vanno al Nord  e sono poi raggiunti dai genitori. Io tornai perchè avrei potuto trasferirmi da Bordighera e andare a Sanremo, in un istituto tecnico dove aveva studiato Calvino. Ma era un istituto dove nessun preside voleva andare perchè comandava la segretaria il cui marito era proprietario del più grande istituto privato di Sanremo. Non sapendo dove andare in Liguria feci la domanda di ritorno in Calabria e da 30 anni mi considero un “restante per caso”. Chissà se la Crusca prima o poi inserirà la dizione tra le parole nuove.