Più poteri ai premier, è sbagliato il mezzo o il fine?

Per evitare la solita confusione che ha sempre accompagnato le nostre discussioni sulle riforme costituzionali bisognerebbe preliminarmente fare chiarezza su una questione dirimente. Chi contesta la proposta Meloni di elezione diretta del premier dovrebbe rispondere alla seguente domanda: il suo dissenso riguarda solo il mezzo scelto da Meloni per rafforzare il potere del capo del governo oppure riguarda il fine stesso della riforma? Ciò che rende lecita la domanda è dato dal fatto che la proposta Meloni ha incontrato due diversi (molto diversi) tipi di obiezioni: c’è chi condivide il fine (rafforzare il potere del capo di governo) ma ritiene inadeguato il mezzo scelto. E c’è chi contesta il fine in quanto tale. Il senatore Dario Franceschini ( Corriere del 25 novembre) ha saggiamente invitato la sua parte politica, il Partito democratico, a non chiudersi a riccio, a non scegliere la contrapposizione frontale. L’ha esortata a partecipare con una propria proposta (come il semi-presidenzialismo) alle negoziazioni sulla riforma della Costituzione. Ma ciò che il suo partito dovrebbe chiarire — prima di tutto a se stesso — è se condivide o no il fine, ossia il proposito di rafforzare il potere del capo dell’esecutivo. È lecito il sospetto che sia proprio il fine a non essere accettato da una parte consistente del partito di Franceschini. Se così fosse, la sua esortazione cadrebbe nel vuoto.

È da sempre forte e diffusissima la concezione secondo la quale sarebbe un male per la democrazia italiana modificare la forma di governo in modo da trasformare il presidente del Consiglio in un autentico primo ministro. L’idea sottesa è sempre stata quella secondo cui dare forza istituzionale al governo significa aprire la strada alla dittatura. Per questa,antica e radicatissima, corrente di pensiero era in errore Piero Calamandrei quando sosteneva che sono i governi deboli e non quelli forti il vero pericolo da cui la democrazia deve guardarsi.

I conservatori costituzionali usano di solito due argomenti. Il primo è il seguente: non è vero che i governi in Italia siano deboli. Anzi, è vero il contrario: lo prova l’uso continuo della decretazione d’urgenza. Il secondo argomento è quello secondo cui è alla Costituzione (regime assembleare incluso) che dobbiamo la stabilità di una democrazia che dura dalla fine della Seconda guerra mondiale. Toccarla significa rimettere in discussione la democrazia.

Nessuno dei due argomenti è convincente. L’uso e l’abuso della decretazione d’urgenza, con tutte le sue patologiche conseguenze, è il frutto della debolezza e non della forza dei governi: l’unico mezzo a disposizione di esecutivi deboli per non essere completamente ridotti all’immobilismo dai fortissimi e diffusi poteri di veto con cui hanno sempre dovuto fare i conti. Il secondo argomento è ancora più inconsistente. Dimostra, in chi lo brandisce, una evidente mancanza di senso storico.

Convincetevi: non è stata la Costituzione, con il parlamentarismo assembleare, a garantire fin qui la democrazia in Italia. È stata la pax americana, la protezione offerta al nostro Paese, come al resto dell’Europa occidentale, dagli Stati Uniti. Ed è proprio perché la pax americana vacilla, perché la protezione americana in futuro potrebbe non essere più garantita, che occorre rafforzare le nostre istituzioni, a cominciare dal governo. Allo scopo di accrescere le chances di sopravvivenza della democrazia. Quanto più le acque internazionali diventano agitate, quanto più crescono i pericoli esterni, tanto più aumentano i rischi che la nostra fragile barchetta istituzionale si rovesci o si infranga contro gli scogli.

Condividere il fine della riforma Meloni, però, non significa necessariamente sposare quella proposta. Certo, è vero: almeno in linea di principio, un premier eletto, forte del consenso popolare, per tutta la durata della luna di miele, sarebbe potentissimo. Ma, finita la luna di miele, tenuto conto del fatto che, secondo quel progetto, il premier non godrebbe di più poteri dell’attuale presidente del Consiglio, egli cadrebbe subito in balia delle varie fazioni e fazioncine presenti nella coalizione di governo. Senza contare il fatto che con la legge elettorale adombrata dalla proposta Meloni, senza neppure il ballottaggio, difficilmente il premier sarebbe espresso da una maggioranza di elettori. Con il rischio che un premier di minoranza si porti dietro, fin dai primi passi del suo mandato, il peso di una legittimazione monca. Mancherebbe cioè di un consenso elettorale sufficientemente ampio.

C’è chi lamenta il fatto che l’opposizione non abbia ancora risposto al progetto Meloni con una controproposta credibile, come ad esempio un cancellierato alla tedesca. Ma il punto è che anche per sostenere il cancellierato occorre condividere il fine, il rafforzamento del potere del capo del governo. Non c’è cancellierato possibile se non si riducono, e anche in modo rilevante, le prerogative di cui gode attualmente il presidente della Repubblica. Chi non vuole che quei poteri vengano toccati, non condivide il fine, non vuole la trasformazione del presidente del Consiglio in primo ministro. Ecco perché molti sono ostili anche al cancellierato.

Naturalmente, qualcuno potrebbe fare una obiezione, questa indubbiamente seria e fondata. Pretendere che la discussione sulle riforme costituzionali sappia distinguere fra fini e mezzi, significa immaginare possibile che un dibattito pubblico in Italia possa essere condotto all’insegna della razionalità. Ma non è forse vero che il fumo ideologico è dominante in qualunque pubblica contesa (si tratti di Reddito di cittadinanza, salario minimo, impiego dei fondi del Pnrr e quant’altro)? Perché mai le riforme costituzionali dovrebbero fare eccezione? E difatti nessuno ci crede. Diciamo che in un mondo ideale (inesistente) i protagonisti dovrebbero dividersi in tre gruppi: due che condividono il fine anche se sono in disaccordo sui mezzi per conseguirlo e un terzo che non condivide né il fine né i mezzi. Spetterebbe ai primi due gruppi di negoziare fra loro per scegliere, dato il fine comune, il mezzo che appaia, nelle circostanze in cui ci troviamo, il più adeguato per realizzarlo.