Il furfarismo malattia adolescenziale del Pdes

«Ma io non ero nel Pd». Sta in queste poche parole pronunciate da Marco Furfaro, giovane dirigente in ascesa del Partito democratico, la sostanza della questione, il riflesso condizionato, la spiegazione migliore di quello che sta avvenendo nel partito di Elly Schlein – definizione corretta perché il Partito democratico è diventato al novantanove per cento il PDES, il “partito di Elly Schlein”.

Dunque, giovedì sera a Piazzapulita si stava parlando delle liberalizzazioni, un capitolo che ebbe in Pier Luigi Bersani un protagonista assoluto (sì, è lo stesso Bersani che oggi è il nume tutelare dei giovani del Nazareno) e qualcuno aveva appunto fatto presente che all’epoca il Partito democratico sosteneva il mercato tutelato eccetera. «Ma io non ero nel Pd», ha fatto Furfaro nell’operazione di negare ogni affinità con quel deviazionismo di destra, come dicevano i leninisti, di quando il Partito democratico era aperto alle istanze del miglior riformismo. Io non c’ero, io sono questo qui.

Vero, era con Sel, il partitino del bertinottismo dolce di Nichi Vendola, poi diventato Sinistra Italiana di Nicola Fratoianni, più o meno la stessa pietanza che mille anni fa si chiamava Pdup – di Lucio Magri –, insomma pochi ma buoni e soprattutto puri.

Ma lasciamo stare la preistoria e torniamo da Furfaro, bel tipo combattivo cui non difetta la frase a effetto e la rispostina arrogantella da militante di base, incarnazione postmoderna dei “duri” extraparlamentari di sinistra, stilemi più da “collettivo politico” che da sezione operaia, tutt’altra storia dal troncone Pci-Pds-Ds, per non dire dei Popolari-margheritini: e si vede.

Il furfarismo insomma esprime con immediatezza quell’essere altra cosa rispetto al Partito democratico come lo vollero, pur nella confusione dell’amalgama, i suoi fondatori che sempre mantennero una certa onestà intellettuale nel “conservare superando” la storia passata, pur nel segno della novità. Una delle cose meno sensate dette da Walter Veltroni fu infatti quando dichiarò che non era mai stato comunista, in realtà voleva dire che lui non c’entrava niente con i postulati teorici del comunismo o con il socialismo dell’Est ma diede purtroppo l’idea furbetta di venire dalla luna, il che consentì a Giulio Andreotti, uno che aveva il senso della continuità millenaria di Santa Romana Chiesa, che quello che era stato nel Pci doveva essere «un omonimo». Sottigliezze cui Furfaro non deve sottostare, lui davvero non era nel Partito democratico, lo dice quasi con orgoglio e con un certo retrogusto grillesco – come volesse far la parte dell’apriscatole che apre la scatoletta della sinistra italiana.

Già, l’operazione psicologica – politica è troppo – del furfarismo consiste nella damnatio memoriae di ciò che il Partito democratico è stato dal 2007 (anno di nascita) al 2023 (anno di Schlein): la vittoria di Elly Schlein ha spaccato la storia in un prima e in un poi, non segna una discontinuità ma una rottura, è il 1789 dei nuovi contro l’ancien régime, così che, chiarito che la Storia facit saltus, da adesso in poi tutto è possibile: soprattutto «espungere i residui di renzismo», come disse Roberto Speranza (che c’era e se ne andò con il piccolo e già dimenticato Articolo Uno e poi ritornò pur sparendo dai radar), e persino di veltronismo – si pensi alle primarie già cadute in disuso (vedi Sardegna) dopo quelle che hanno fatto vincere Schlein.

Serve un colpo di straccio col sorriso sulle labbra su tutto ciò sa di liberalismo, di attenzione a crescita, mercato, merito, produttività, con una scrollatina di spalle addirittura rispetto al confronto parlamentare (l’Aventino sulle riforme costituzionali), e persino alla un tempo incrollabile fedeltà ideale all’Occidente (la pace, la pace!). Ecco perché il Partito democratico non è interessato, non vorremmo dire che non è in grado, a produrre programmi concreti preferendo l’invettiva antagonista alla costruzione di serie politiche riformiste: perché è sostanzialmente un partito che ha rotto con il “vecchio Pd” proprio sul punto di fondo, le proposte concrete che sono la premessa della vocazione di governo.

«Io non ero nel Pd» può alludere in modo subliminale alla inconfessabile voglia di restare all’opposizione vita natural durante, tra piazze imbandierate, baci, abbracci e cortei e tanti piagnistei, senza porsi l’obiettivo di andare al governo avendo introiettato che qui i problemi sono di difficilissima soluzione e soprattutto richiedono pesanti compromessi con la propria coscienza, adesso immacolata, sull’economia, sull’immigrazione, sulla sicurezza, sulla guerra: compromessi che confliggerebbero con la visione adolescenziale tipica del movimentismo tendenzialmente estremista che insegue i problemi uno per uno al di fuori di una visione generale qual è appunto quella di governo.

«Io non ero nel Pd», io sono un’altra cosa, sono «il Paese pulito in un modo orrendamente sporco», è il partito di Pier Paolo Pasolini e Michela Murgia più che quello di Giorgio Napolitano, Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, è di Paola Cortellesi più che di Francesco Rosi, di Zoro più che di Leonardo Sciascia, delle “belle bandiere” più che della fatica dei programmi o anche solo di stare in Aula (parentesi, ad ascoltare Guido Crosetto ieri erano quattro gatti, già era venerdì).

E alla fine dei conti, il furfarismo non riesce ad avere né la forza luminosa della cultura né la sapienza della grande politica, non ci sono né Rosi, né Sciascia né Ciampi. Il furfarismo insomma si presenta come la malattia infantile di un partito che al massimo tiene i suoi indignados ma senza prospettive reali, perché non sa parlare agli altri in una dimensione grande e non infantile della politica. Ma in fondo è più divertente così, no?