Conte e Schlein volevano il muro contro muro sul salario minimo, e ora si lamentano del muro

Brutta storia, questa del salario minimo. Tutta politica, tra bandierine e facce feroci. Ennesima occasione persa in una legislatura che si è capito sarà tra le meno produttive della storia repubblicana nel senso che non sarà mai all’insegna della costruzione ma solo dell’esibizione muscolare. E i più muscolosi sono quelli della destra. Che forte dei numeri a suo favore semplicemente prima ha fatto melina, poi ha buttato la palla in tribuna, e poi ha fischiato da sola la fine della partita. Un esempio di dittatura della maggioranza.

Avrebbe potuto, la destra, esaminare in Aula la proposta delle opposizioni, tranne Italia Viva che si dica quel che si vuole ma aveva capito l’antifona, e magari bocciarla: si discute, poi si vota. Funziona (dovrebbe funzionare) così. Macché. Con i numeri a suo favore la destra può di fatto annichilire ogni proposta dell’opposizione senza nemmeno discuterla.

È ciò che ha fatto la maggioranza, capeggiata nell’occasione dal presidente della commissione Lavoro ieri agitato grillino e oggi agitato meloniano Walter Rizzetto: con un trucchetto, assolutamente legittimo dal punto di vista dei regolamenti, ha di fatto fulminato la proposta dei nove euro all’ora come salario minimo rinviando la materia, senza specificazioni di merito, a una legge delega per la quale il governo ha sei mesi di tempo (vedrete che s’inventeranno una roba per il Primo maggio): cioè, nulla di fatto.

Mesi e mesi di discussione, petizioni, incontri a palazzo Chigi, rinvio al Cnel: e poi, puf! È questa la dottrina Meloni: non concedere nulla. Porte chiuse. Sbarrate. Zero dialogo. Ma questa in un certo senso è anche la filosofia del Partito democratico, di Nicola Fratoianni, del Giuseppe Conte lo strappatore in Aula della legge, un bell’effetto da teatro di provincia (Azione ha cercato di ritagliarsi un improbabile ruolo da mediatore mentre gli altri si sparavano addosso).

Tutti questi hanno individuato un tema popolare, a tratti sbandierato come la panacea del ben più gigantesco problema salariale, un buon collante tra di loro – in effetti, un miracolo – da brandire contro un governo che sulle prime ha balbettato e poi ha rubato tempo con il coinvolgimento corrivo del Cnel di Renato Brunetta che ovviamente ha retto la scala a Giorgia Meloni.

In tutto questo il sindacato, cioè il soggetto che in teoria avrebbe dovuto essere il protagonista di questa vicenda, non si è capito che parte abbia fatto. Probabilmente nessuna. Salvo riproporre il solito litigio tra Cgil e Cisl, la Cisl che non ha voluto fare la cinghia di trasmissione di Elly Schlein e compagnia. La quale compagnia aveva seguito ordinatamente il copione tradizionale: mettere a punto una proposta con una sua forza, unire su di essa le forze il più possibile, raccogliere le firme (non un granché come strumento, diciamolo), andare a palazzo Chigi per incontrare il governo, accettare la cosiddetta mediazione del Cnel e infine presentarsi in Parlamento per una battaglia tosta che è finita come è finita, con gli stucchevoli cartelli e le grida «vergogna vergogna».

Schlein ha cercato di essere la frontwoman della battaglia e ha sentito il colpo: «Il provvedimento è stato affossato e il modo ancor ci offende perché avrebbero potuto avere almeno il coraggio di votare contro e invece hanno svuotato di significato proposta a cui avevamo lavorato». Rabbia dopo la botta. Ha enfatizzato troppo un tema che poteva essere affrontato con maggiore fair play e non come la battaglia di Lepanto? Forse. Difficile dire. Però se le perdi tutte, fuori e dentro il Parlamento, poi è difficile prendersela col destino cinico e baro. Certo c’è un governo chiuso e sordo, ma ci deve essere proprio qualcosa nell’opposizione che non funziona. Alla prossima.