La quasità/ Come e perchè Meloni si è contizzata

Francesco Merlo, su Repubblica, ha sempre descritto in maniera magistrale Giuseppi Conte:

Ancora lei pensa che Conte e Grillo siano di sinistra? Via, signora De Bellis, il trasformismo del nostro signor Quasi è un caso di scuola, ormai studiato nelle università. Com’è possibile credergli ancora? A me pareva che la sfiducia a Mario Draghi, originata dagli acidi rancori di Conte, avesse definitivamente mostrato con chiarezza che non sono affidabili gli accordi politici con i 5 stelle.

Invece il Pd, recidivo, ci era cascato di nuovo quando Conte si era messo a rivelare «ho votato Berlinguer», ed era corso ad abbracciare Zingaretti, Bettini, D’Alema, Landini e ovviamente Elly Schlein. “Chi t’abbraccia più di quel che suole, o ti ha ingannato o ingannar ti vuole” dice il proverbio, e Giuseppe Conte ha provato ad abbracciare tutti, nessuno escluso, da Salvini a Draghi. In quanto alla volgarità degli attacchi personali alla segretaria del Pd, mi ripeto: sono incoraggianti. Sono segnali di successo che dovrebbero rincuorarla.
Cerca Elly disperatamente, ma alla fine si ritrova sempre Giuseppi. Più Giorgia Meloni prova a polarizzare lo scontro con la segretaria del Pd, più il capo del M5s spunta come un fungo: non sei Rambo, basta vittimismo alla Calimero, vergognati sul salario minimo. E vai con disegni di legge strappati in Aula, cartelli, interviste al fulmicotone. Sdeng, bum, splash! La premier, per Forbes, è la quarta donna più influente del mondo (dietro di lei Taylor Swift, davanti a tutte Ursula von der Leyen). E forse questa vita tra Palazzi e potenti, tappeti rossi e cerimoniali, inizia a starle stretta. Ecco perché ieri si è contizzata. Niente Scala, pranzo sociale con gli ultimi. Modalità Quarto stato. E’ Giorgia Pellizza da Volpedo.

Non vanno liquidate con le risate le ricorrenti piccole-grandi truffe curriculari del premier Giuseppe Conte che accademicamente è una figura ben più drammatica che ridicola.

Innanzitutto perché trucca la grande tradizione italiana del professore-politico, da Moro a Spadolini, da Amato a Monti, da Colletti a Melograni, da Marco Biagi a Rodotà. Se politicamente è infatti il burattino che non riesce a diventare Pinocchio, dal punto di vista universitario è il professore delle mezze misure spacciate per intere nel curriculum gonfiato, delle mezze porzioni in biblioteca, delle mezze calzette indossate alla New York University, dei mezzi perfezionamenti e del finto gran rifiuto a un concorso invece rinviato, tan-to-chi-se-ne-ac-cor-ge: tié.

In realtà il Conte universitario è stato sempre smascherato dai reporter americani, ora da quelli di politico.eu, e cento giorni fa dal New York Times. Più di noi,infatti, gli anglosassoni credono in quella, a volte inafferrabile, eccellenza dell’accademia italiana che diventa politica. La considerano diversa dalla loro che non ha mai commistioni di nessun genere con la politica, – out of the question – ma ne apprezzano la qualità essenziale anche se antiquata, classica, barocca. In Conte hanno invece fiutato la solita, sostanziale furbizia italiana, che conoscono altrettanto bene. Perché, bisogna dirlo, nell’università italiana, ci sono tanti professori alla Conte, ma nessun altro prof arcitaliano era mai arrivato alla presidenza del Consiglio. Anzi, i professori, nella nostra storia politica, dovunque abbiano militato, sono stati la risorsa della democrazia, la riserva della repubblica. E stiamo parlando, per allungare l’elenco, anche di Quintino Sella e Giovanni Gentile, Luigi Einaudi e Concetto Marchesi, Gaetano Martino, Aminore Fanfani, Beniamino Andreatta, sino a Sergio Mattarella.

Giuseppe Conte, parodizzando questa tradizione, è una personalità drammatica della nuova Italia nazionalpopulista. Non perché è un premier ectoplasma, forma cui altri danno forma, il “provvisoriamente al posto di”, il “signor nel frattempo”, ma perché non appartiene a quella nobiltà, ed è solo un cadetto dell’accademia, un professore dimezzato.

Già nel suo primo discorso da presidente del Consiglio dimostrò di non sapere nulla di Piersanti Mattarella, né come si chiamava e neppure che era fratello del presidente: “Un suo congiunto, adesso non ricordo esattamente”. Di Conte cito, poi, a memoria e tutto d’un fiato: “La prego, non indulgi”, “si rimbocchino le mani”, “molti giornalisti prendono 200, 300 euro l’ora”, “il discorso di Benito Mussolini, all’indomani del delitto Andreotti”, “l’humus per avere una stella polare”, “interlocuzione”, “pretermesso”, il “tono dialogico”, “la caducazione”, “la soggettivizzazione del conflitto” e “come diceva Albert Astain”, chi? “Albert Astain”. “Salvo intese”.

Conte ovvero La quasità

Titolare di un metodo che ormai sfida Andreotti, Giuseppe Conte ha consegnato ai libri di storia il nuovo trasformismo italiano, quello del “quasi”, che gli permise, per esempio, di essere un capo di governo quasi filoamericano e quasi filocinese e ora gli permette di schierarsi quasi con l’Ucraina e quasi contro l’Ucraina.

È la stessa quasità del progetto mini Tav, una quasi Tav che i no Tav non avrebbero potuto più contestare, la stessa del “lockdown parziale”, è il quasi inglese Submerged Floating Tube Bridge, un quasi ponte di Messina sottomarino, invisibile e poco ingombrante. Lo so, fa ridere come la donna un poco incinta di Maupassant e il Ringo di Celentano che “respirava come un morto”.

E, invece, immaginate seriamente la quasità, sia come una scienza politica, che a sinistra socchiude la porta alla destra e a destra la socchiude alla sinistra, e sia come l’antropologia del descamisado con la camicia, che a Genova intona Bella ciao ma sui soffiati, e a Napoli dice “non tengono scuorno” con l’aria impertinente del quasi straniero in piazza. La quasità di Conte è una parabola di successo proprio perché sin dall’esordio nessuno prendeva sul serio, tra il vaffa di Grillo, la rottamazione di Renzi e i pieni poteri di Salvini, un quasi leader, vice dei suoi vice, un premier “nel frattempo”. E i giornali americani scoprirono che anche come professore era un quasi perché il curriculum era quasi vero.

Cinque anni dopo, persino il linguaggio – “l’interlocuzione”, “pretermessi”, “salvo intese” – è quasico. E Conte è diventato (per ora) il quasi Lula italiano, ma con la giacca di sartoria sulla spalla, la cera nera sui capelli e la clamorosa assenza della pochette, un vuoto che stropiccia verso sinistra l’aria conversativa e indulgente del trasformista che non ha più bisogno di voltare la gabbana per esclamare “nessuno ci dica che Putin non vuole la pace”: gli basta convocare il gemello di stesso e aggiungere: “chi mi definisce filoputiniano mi diffama”.

Vuoi vedere che Conte è il quasi genio che ha trovato la soluzione al dubbio di Amleto? Il terzo corno tra essere e non essere è il quasi.

Posticcio

In quanto a Conte è posticcio qualunque sia la parte che recita. È un attore che, per risultare convincente, torce e strizza la maschera che via via indossa, mettendo a nudo, nell’esagerazione, la verità di un cinismo senza principi.
Difatti, contro l’invio alle armi in Ucraina, nella foga della recitazione pacifista, è arrivato a sostenere che l’Italia deve farsi carico della “sicurezza” e della “tutela delle minoranze russofone”. C’è sempre una “troppità” di goffaggine che mette a nudo Conte e lo sovrasta.

Neppure si rende conto, per esempio, di parlare come i fedelissimi che Putin premia con il titolo di “Guardia dell’esercito russo”.

Simone Canettieri sul Foglio ha scritto che Meloni si sta contizzando
L’anno scorso Meloni partecipò, accompagnata da Andrea Giambruno, alla prima della Scala avvolta in uno chiccoso longdress firmato Giorgio Armani dallo scollo incrociato con una mantella ton sur ton (beccandosi i giorni a seguire anche un’antipatica influenza). Ieri ha deciso di mettersi a tavola – senza fotografi e video operatori – a Fieramilanocity tra cinquecento persone “fragili”. Niente palco reale, ma pasto frugale. Una scelta politica, una mossa mediatica.

Ecco allora in scena una premier fra gli invisibili all’evento organizzato dalla Fondazione Arca con la regia di Enrico Pazzali. Una mossa quella di Meloni – al pranzo c’erano anche Matteo Salvini, Ignazio La Russa e Beppe Sala – che ricorda appunto quella di Giuseppe Conte. Proprio il giorno di Sant’Ambrogio, un anno fa, l’ex premier assistette alla prima da un maxischermo montato all’Opera Cardinal Ferrari, una struttura che dal 1921 accoglie le persone in difficoltà. All’epoca il leader del M5s si era messo a girare le Scampie d’Italia solidarizzando con i percettori del reddito di cittadinanza, intervistandoli uno a uno (una sorta di Samarcanda santoriana). E allora forse sono due populismi, uno magari più tecnico, che continuano a fronteggiarsi. Meloni d’altronde non ha mai nascosto (e giocato) la sua arma in più: lo spirito popolare, l’anima popolana, diretta e schietta, empatica e “so’ Giorgia”. Per anni, quando era all’opposizione, amava dire che gli “unici mercati che ascolta sono quelli della frutta”. Adesso è tutto più complicato, com’è normale che sia. Ma l’idea di uscire dal Palazzo e di mostrarsi acqua e sapone alla gente (da qui il gentismo) rimane ancora il suo pallino, sempre più stretta in un’agenda serrata di impegni istituzionali di primissimo livello. E così per un giorno ha cercato di mandare messaggi diversi, anche per non farsi impallinare dalla propaganda contiana, di sicuro più efficace, almeno sui social network di quella del Pd. Niente Scala, la ragazza della Garbatella va a mangiare con chi cammina sul baratro. Un messaggio non reclamizzato, ma da inviare all’esterno, a chi l’attacca per essersi snaturata davanti ai fantomatici poteri forti. La ricerca di un racconto popolare di Meloni, donna Rambo al comando alle prese con le congiure del mondo, è l’esercizio a cui si dedicano i consiglieri di Palazzo Chigi.