Calenda prova a fare uscire l’Italia dalla fase della negazione

È lecito dubitare che la soluzione alla trentennale paralisi del nostro sistema politico possa venire dal fronte repubblicano immaginato da Carlo Calenda. Ma è semplicemente incredibile che lui, almeno tra i principali leader politici, sia l’unico a vedere il problema.

A trent’anni esatti dal varo di quel sistema maggioritario che avrebbe dovuto regalarci stabilità e governabilità, garantendo all’elettore il diritto di scegliere direttamente presidente del Consiglio, governo e maggioranza, siamo ancora qui a discutere di riforme costituzionali ed elettorali, che verosimilmente finiranno come tutte le proposte di riforma precedenti. Abbiamo passato trent’anni filati a parlare di come assicurare governi eletti direttamente dai cittadini, mentre gli stessi sostenitori di queste tesi (politici, giornalisti, costituzionalisti e commentatori di ogni ordine e grado), promuovevano o approvavano di tutto cuore ogni sorta di governo tecnico, di larghe intese o di grande coalizione, ribaltoni e ribaltini per tutti i gusti, fino allo spettacolo psichedelico della precedente legislatura, che ha visto persino due governi di opposto colore politico guidati dallo stesso presidente del Consiglio.

Naturalmente, se per qualche motivo imperscrutabile, frattanto, l’economia e la società italiana avessero prosperato, oggi potremmo anche disinteressarci di questo singolare modo di passare il tempo escogitato dalle nostre classi dirigenti. Il problema è che, come Calenda ricorda nel suo nuovo libro dedicato proprio a questi temi, “Il Patto” (La Nave di Teseo), in questi trent’anni tutti gli indicatori economici, sociali, culturali italiani sono peggiorati rispetto ai grandi paesi europei: «I salari reali italiani hanno perso il 2 per cento contro un aumento superiore al 30 per cento in Francia e Germania. L’Italia è riuscita a spendere poco più del 50 per cento dei fondi europei. (…) L’Italia è diventata il terzo paese più ignorante dell’Ue e ultimo tra i grandi paesi europei per spesa sanitaria pro-capite. Il divario tra Nord e Sud è cresciuto drammaticamente. Il rapporto tra debito pubblico e Pil è aumentato di più di 20 punti percentuali».

Anche qui, naturalmente, si può legittimamente dissentire sulla concreta via d’uscita proposta da Calenda, vale a dire una riforma istituzionale improntata al modello tedesco (da affidare a un’assemblea costituente, per rompere la maledizione per cui da circa otto legislature ogni governo tenta, senza successo, di farsi la sua riforma costituzionale) e una legge elettorale proporzionale con elevata soglia di sbarramento, per spezzare una volta per tutte il meccanismo perverso del bipolarismo di coalizione. Ma chi legittimamente dissenta dovrebbe anche avanzare una controproposta ragionevole, che non assomigli a una qualunque variante del concetto “insistere con quello che tentiamo di fare da trent’anni, ma meglio, o di più, o con maggiore convinzione”.

Chi legge Linkiesta, anche solo saltuariamente, sa già quanto io condivida la battaglia per un ritorno al proporzionale come unica strada per interrompere la trentennale coazione a ripetere del nostro sistema politico e del nostro dibattito pubblico, brodo di coltura di tutti i possibili populismi che abbiamo sperimentato in questi anni. Mi auguro dunque che Calenda abbia successo e conquisti alla sua battaglia il maggior numero di forze (politiche, sociali e intellettuali), ben sapendo che dovrà affrontare una foltissima schiera di agguerriti avversari.

Le obiezioni dei fautori dello status quo, in genere, sono di due tipi. La prima, da parte della stampa cosiddetta progressista, consiste sostanzialmente in un’accusa di voler mettere tutto e tutti sullo stesso piano, con una condanna generica e qualunquista della Seconda Repubblica che non distinguerebbe tra destra e sinistra, Romano Prodi e Silvio Berlusconi, grandi risultati dei governi di centrosinistra e pessimi risultati dei governi di centrodestra.

Questa accusa – sto cercando un modo gentile per dirlo, ma ho cominciato a scrivere troppo tardi e non ho abbastanza tempo – è un concentrato di faziosità e ipocrisia, non solo perché rifiuta di guardare ai risultati concreti (gli indicatori economici e sociali di cui sopra) per concentrarsi, ancora una volta, sui nomi, le appartenenze, le squadrette; ma anche perché basta veramente poco per verificare cosa scrivevano e dicevano quegli stessi opinionisti di sinistra non solo del secondo tragico governo Prodi (troppo facile), o magari del governo D’Alema (quello nato dal famigerato complotto del ’98, da tanti di loro descritto come poco meno di un golpe), ma pure del primo governo Prodi, che successivamente avrebbero raccontato come l’inizio di una radiosa stagione di cambiamento e rivoluzione troppo presto interrotta (dal complotto di cui alla parentesi precedente). Basta andare negli archivi dei giornali, o anche semplicemente su Google, per scoprire che i loro giudizi erano molto più severi di quelli di Calenda. In breve: l’età dell’oro del bipolarismo italiano non è mai esistita. Il sistema non ha mai funzionato, nemmeno per un giorno. E anche quelli che oggi raccontano il contrario, se si va a vedere cosa dicevano all’epoca, lo confermano in pieno.

La seconda obiezione è quella che inevitabilmente attende qualunque leader politico tenti di uscire dalla gabbia del bipolarismo di coalizione, al quale si domanda solo con quale dei due poli intenda allearsi, pena l’irrilevanza di qualsiasi altra cosa proponga.

In pratica, il succo del ragionamento è che Calenda deve allearsi con Giuseppe Conte, perché altrimenti vince la destra, e lui così si assumerebbe la responsabilità di lasciare il governo del paese in mano a forze pericolose ed estremiste, che sull’immigrazione, sui diritti civili, sull’Europa dicono quello che dice Matteo Salvini. Obiettare che questo è proprio ciò che ha fatto Conte appena arrivato al governo, con Salvini al ministero dell’Interno, al tempo dei decreti sicurezza e dei “porti chiusi”, chissà perché, non è considerata una replica valida.

Eppure è esattamente questo il punto, che non riguarda la coerenza o l’affidabilità di Conte, ma la logica del sistema, che continua a produrre un dibattito pubblico e un confronto politico sempre più degradati, irrazionali, emotivi e slegati da qualsiasi possibile confronto con la realtà.