Raffa/Ovvero il successo perchè le è mancato il padre

La recensione di «Raffa», una docuserie in tre puntate scritta da Cristiana Farina, diretta da Daniele Luchetti (Disney+) e prodotta dalla figlia di Veltroni, Martina, l’ha fatta Aldo Grasso ed è perfetta:

“E’ in atto un processo laico di beatificazione di Raffaella Carrà: celebrazioni, testimonianze, filmati, opere liriche (è l’omaggio più coraggioso, «Raffa in the Sky»)  Il processo prevede che si vada oltre l’attività artistica di Raffaella, se pur notevole, e che ogni sua apparizione sia circonfusa di una nuova luce: simbolo di libertà dei comportamenti, regina indiscussa della tv e icona LGBTQ+. La strada scelta è quella della doppia personalità. Da una parta, Raffaella Pelloni, una donna che ha sempre gelosamente custodito la sua vita privata e sentimentale, che ha sognato invano la maternità, che ha lottato per il riconoscimento dei diritti civili. L’intervista più significativa è quella di Anna Vasini, un’anziana amica di famiglia che racconta vicende poco note. Dall’altra, la show girl, la regina del sabato sera, da «Canzonissima» a «Milleluci», da «Ma che sera» a «Fantastico», l’interprete di canzoni di successo («Tuca-tuca», «Maga Maghella», «Rumore», «Chissà se va», «Com’è bello far l’amore da Trieste in giù»), l’immagine della trasgressione sessuale in versione casalinga”.

Detto che la serie ha 3 puntate (la gioventù, i successi internazionali, dalla Raffa conduttrice alla fine), cosa c’è che non va in un prodotto così accurato e affidato a Luchetti, che sa cosa sia il cinema? E’ presto detto. Mentre  testimonianze varie illuminano e chiariscono Raffaella Pelloni, gli altri testimoni (Fiorello, un hair stilista, Tiziano Ferro) non apportano alcun contributo alla causa di beatificazione della Carrà. Il materiale televisivo e discografico non è quindi analizzato o approfondito per tentare di spiegare un successo internazionale davvero grandioso. Alla fine sembra quasi che la tesi dei realizzatori sia che la Carrà ha avuto grande successo perchè le è mancato il padre e non ha potuto avere un figlio.

La figlia di Boncompagni e Arbore chiariscono bene una cosa ben risaputa, vale a dire che Raffaella come icona televisiva e poi internazionale sia stata un prodotto esclusivo di Gianni Boncompagni (così come Ambra, la Ferrari, la Gerini) con le sue insulse canzoncine (e con i primi piani della Raffaella conduttrice) oltre che di Gino Landi con le sue coreografie. L’intera serie poggia dunque sul racconto di un autore televisivo, Salvo Guercio, ed intorno a lui il povero regista si arrabatta per montare spezzoni di dichiarazioni di gente adusa a dire banalità o frasi fatte. Insomma, tutto il contrario del film di Tornatore su Morricone, dove l’arte di un genio è stata scomposta e sviscerata per farla capire in maniera didascalica ad un pubblico di non musicisti.

Anche per la Carrà c’è tutta una parte musicale, che ho definito insulsa poco fa (tutta quella scritta da Boncompagni), che andrebbe oggi indagata. Prendiamo “Rumore“, una canzone del 1979 che ha venduto dieci milioni di dischi nel mondo. Nella serie si dice solo che era un esempio di disco music. Troppo poco, non si citano neppure gli autori di

Na, na
Na, na, na, na
Na, na, na, na, na, na, na, na
Na, na, na

che sono Andrea Lo Vecchio per il testo, Guido Maria Ferilli per la musica e Shel Shapiro per gli arrangiamenti. E’ come se uno parlasse del film Vacanze romane, soffermandosi solo su Audrey Hepburn senza neppure citare una sola volta l’artefice del tutto e cioè il regista William Wyler, tre premi Oscar, il regista (non so se mi spiego) di Ben-Hur, di Fanny Girl, di La legge del signore.

E’ solo un esempio, per significare che operazioni del genere sulla vita artistica e personale di una diva sono inutili se, per ragioni a me incomprensibili, si deve dar la parola ad un Tiziano Ferro il quale ci parla di sè e sta sempre sul punto di piangere non si sa perchè.