«La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche il volo di un moscone / La libertà non è uno spazio libero…». Già, che cos’è la libertà – oltre che partecipazione, come cantava quel Giorgio Gaber di cui si è appena ricordato il ventesimo della scomparsa – visto che intorno alla parola libertà gravita una famiglia lessicale semanticamente (e assiologicamente) un tantino irrequieta?
Un potenziale portatore di zizzania è già il primo rampollo della nobile casata, l’aggettivo “liberale”, figlio primogenito del capostipite “libero”. Liberalis, in latino, ha come significato di base quello di “proprio, degno di un (uomo) libero”. Ma che cosa è degno di un uomo libero? Siccome a essere liberi erano generalmente gli uomini ricchi e di alto rango, liberi dalla necessità di guadagnarsi il pane col sudore della fronte, degne di costoro erano nel Medioevo le arti del Trivio e del Quadrivio (grammatica, retorica e dialettica; aritmetica, geometria, musica e astronomia), dette per questo “arti liberali”. E appunto in quanto ricchi e di alto rango, era appropriato per tali signori uno stile di vita “nobile, generoso, magnanimo”.
È in questo senso che la pressoché identica traduzione anglofona di “liberale”, ossia liberal, negli anni successivi alla Grande crisi del 1929 è diventato il nome con cui si identifica la sinistra statunitense fautrice del Welfare e della redistribuzione dei redditi, che calcando l’accento sull’idea di libertà ha trovato il modo per sfuggire alle connotazioni potenzialmente negative dell’aggettivo “socialista”. Mentre nella vecchia Europa, contagiata a fondo dalla predicazione marxista, l’ideale della libertà è presto entrato in concorrenza con quello dell’eguaglianza (“valori antitetici”, sebbene non inconciliabili, ha avvertito Norberto Bobbio, scomparso anche lui vent’anni fa, il 9 gennaio), sicché i liberali sono diventati i paradigmatici avversari di socialisti e comunisti, almeno finché questi sono esistiti.
Ma già in epoche più antiche l’aggettivo-sostantivo “liberale” si era caricato di una coloritura politica: al tempo delle lotte contro l’assolutismo, tra Seicento e Ottocento, essere liberale vuol dire battersi per le libertà e i diritti dell’individuo. Ma, anche qui, quali sono queste libertà? C’è la libertà di fede, la libertà di pensiero, la libertà di parola, la libertà di associazione, la libertà d’impresa. E c’è anche (soprattutto, per alcuni) la libertà in campo economico. Ossia la libertà di produrre e scambiare merci e servizi senza subire coercizioni esterne, in particolare senza dover soggiacere all’intervento dello Stato, in un regime di libera concorrenza: quel che con una parola sola, e soltanto in Italia, è detto “liberismo”.
Perché questo vocabolo, appunto, esiste unicamente nella nostra lingua: l’inglese ha liberalism, il francese libéralisme, lo spagnolo e il portoghese liberalismo, il tedesco Liberalismus, il neerlandese liberalisme, il romeno liberalism o liberalismul, il polacco liberalizm, il magiaro liberalizmus, il turco liberalizm e così via tutte le lingue che per via diretta o indiretta si riconnettono alla matrice latina della parola. Evidentemente, se non altro sul piano lessicale, nei paesi in cui si parlano queste lingue la libertà economica è intesa come parte integrante e indisgiungibile della visione liberale della società, e quindi del liberalismo. Invece in Italia le cose si complicano. Perché questa peculiarità tutta nostra?
Bisogna fare un po’ di storia del sostantivo, che a differenza di “liberalismo”, derivato dall’aggettivo derivato “liberale”, deriva direttamente dall’aggettivo di base, il capostipite “libero” (ed è quindi morfologicamente più problematico, in quanto, preso alla lettera, sembrerebbe designare non una dottrina o un movimento che sostiene le diverse libertà di cui sopra, su alcune delle quali qualcuno potrebbe pure non essere d’accordo, ma più genericamente la scelta di essere liberi, a cui nessuno, salvo conclamati casi patologici, vorrebbe mai rinunciare).
Attestato con sicurezza la prima volta, nella sua accezione economica, negli Scritti del filosofo marxista Antonio Labriola editi nel 1899 (mentre per il connesso aggettivo e sostantivo “liberista” si conosce un’occorrenza antecedente, in un testo del 1881 dell’economista e senatore Gerolamo Boccardo), il termine “liberismo” ha avuto inizialmente pure un impiego meno specifico: quale «sistema o atteggiamento culturale o intellettuale ispirato al concetto di libertà (di espressione, di opinione, di insegnamento, ecc.)» (Grande dizionario della lingua italianadi Salvatore Battaglia, che riporta come esempio un passo di Piero Gobetti), e anche quale «effimera scuola poetica (derivazione del futurismo) che sostiene la “liberazione” dalle forme tradizionali e accademiche del poetare» (Alfredo Panzini, Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni, aggiunte del 1918).
È stato Benedetto Croce, nell’intento di tenere separato il liberalismo, inteso come corrente filosofica, dai suoi corollari economici, a sancire l’accezione divenuta canonica del termine “liberismo”. «La libertà non sta in alcuna dipendenza da uno o altro ordinamento economico, ma tutti li revoca in questione e tutti di volta in volta accoglie o respinge», osservava nello scritto Principio, ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà (raccolto nel 1941 nel volume Il carattere della filosofia moderna): un’idea alla base della lunga disputa con l’amico (liberale come lui, ma coerentemente liberista) Luigi Einaudi, secondo il quale “non pare accettabile senza qualche riserva la tesi che la libertà possa affermarsi qualunque sia l’ordinamento economico” (Rivista di storia economica, 1937).
Non è questa la sede per inoltrarci nella querelle; di fatto, però, l’accezione ristretta patrocinata dal filosofo dell’idealismo ha consolidato nel tempo uno stigma che ha pesato sulla considerazione del liberismo e che, nella polemica tabuizzante della sinistra, si è trasformato in un interdetto. Così che nello stesso campo della destra liberale si inclina piuttosto a parlare di “liberalismo economico”, che è la medesima cosa ma ha un suono più gradevole: e infatti con varie sfumature è ormai sbandierato pure da gran parte di quel che resta della sinistra italiana, che lasciatasi alle spalle l’antico antagonismo, un secolo dopo Gobetti e Carlo Rosselli, in emulazione con la consorella d’oltreoceano, non esita a denominarsi “liberal” (all’americana, of course, che impegna meno e fa più figo).
“Liberal” ma non “liberista” anche se aperta al “liberalismo economico”, la fu sinistra nostrana non sfugge tuttavia alle obiezioni di un’altra composita corrente di pensiero appartenente alla medesima famiglia lessicale, formata non sugli aggettivi “libero” o “liberale” ma sul sostantivo che ne deriva: il “libertarismo”, ossia l’insieme di atteggiamenti o la concezione politica che pongono la libertà come fine supremo.
Battezzato nell’Inghilterra del XVIII secolo a partire da libertarian – che traduceva il francese libertaire sul modello (inglese) di unitariane la cui prima attestazione conosciuta è in un saggio del 1789 di William Belsham sulla metafisica -, il libertarismo non ha una precisa localizzazione nella topografia politica, ma a seconda del suo disporsi lungo l’asse socialismo-capitalismo può pendere a sinistra (e in questo senso sono stati soprattutto gli anarchici, dalla metà dell’Ottocento, a rappresentarsi come “libertari”) oppure a destra (come, per restare nel presente, in certe punte estreme dell’antistatalismo di matrice leghista). Orientamenti diversi ma rigorosamente in contrasto tra di loro, e spesso anche al loro interno, nonché, a seconda dei casi, con il liberalismo politico e con quello economico.
Tanti movimenti e tante correnti che si contraddicono e volentieri si danno battaglia: la famiglia lessicale è una, l’etimologia li accomuna, la vita li ha divisi. Come dire: parenti serpenti.