Moro come sull’Orient Express, ucciso da tutti tranne che dalle Br

Prendete un ventenne che ne voglia sapere di più sul caso Moro. Immaginate che entri in libreria e, con molta fantasia, che torni a casa dopo aver acquistato una dozzina di volumi sul caso tra quelli usciti, diciamo, negli ultimi venti anni. Esaurita la lettura, il ventenne si troverebbe a doversi destreggiare tra queste convinzioni: a via Fani, luogo del sequestro e della strage della scorta, c’erano i Servizi segreti o la ‘ndrangheta, o tutti e due; a via Montalcini, luogo della detenzione nei 55 giorni del sequestro, Moro non c’è mai stato o c’è stato solo per pochi giorni; Moro è stato spostato in un maniero sul mare o in un appartamento del ghetto ebraico a Roma o in un condominio a poca distanza da via Fani o in tutte queste prigioni, più altre eventualmente non ancora identificate; Moro è stato ammazzato dalla Cia; Moro è stato ammazzato dal Kgb; Moro è stato ammazzato da Gladio, o da Gladio più la Cia, o da Gladio più la Cia e il Kgb, o il Mossad al posto di una delle due, o di entrambe; le Brigate rosse erano una organizzazione di facciata, guidata da agenti sotto copertura di potenze straniere o di servizi di intelligence, in genere uno di quelli di cui sopra.

Sia chiaro che non si tratta di esempi casuali, sono le tesi sostenute nella maggior parte dei libri più recenti sul caso Moro e l’elenco delle convinzioni “alternative” ricavabili dalla pubblicistica sul tema potrebbe proseguire a lungo, con punte fantasy su temi collaterali. Un esempio insuperabile: c’è una scuola di pensiero secondo cui Gradoli, nome della via del covo Br scoperto durante il sequestro, starebbe per Grado LI, 51 in numeri romani, rimando massonico e misteriosofico che non ricordo più quale livello occulto dovrebbe svelare, tanto si tratta di piste intercambiabili, una non esclude mai l’altra, la tira come le ciliegie.

Da molti anni il caso Moro è ormai indistinguibile da una trama di Dan Brown, da un plot di Qanon, la setta americana di ultradestra convinta che il mondo sia dominato da una congrega di pedofili satanisti, e soprattutto dalla trama di Assassinio sull’Orient Express, quel giallo di Agatha Christie dove alla fine si scopre che sono tutti colpevoli, in questo caso tutti tranne le Brigate rosse. Molti sono convinti di aver trovato la verità “alternativa” su Moro in almeno una di quelle sopra elencate.

L’inchiesta sul caso Moro andata in onda nell’ultima puntata di Report è arrivata un po’ come la definitiva consacrazione delle teorie del complotto, avendo peraltro il vantaggio di metterle quasi tutte insieme, una summa dietrologica, un mischione da cui non è escluso nessuno (ah, c’è anche il Vaticano). Confesso di aver provato un profondo senso di sconforto dopo averla vista, come davanti a una sconfitta irrecuperabile, all’evidenza che in Italia è diventato impossibile confrontarsi con la storia del Paese senza precipitare in un buco nero dove tutto si confonde, un metaverso oscuro e fuligginoso che però con gli occhiali del cospirazionismo diventa luce abbagliante.

Non è una polemica con Report, programma che nelle ultime settimane ha sfornato inchieste da manuale, come sulle aziende di Daniela Santanchè, sul quadro rubato finito nella disponibilità di Vittorio Sgarbi o sull’allegra e inopportuna commistione di politica e affari di alcuni parlamentari del Pd. Servizi puntuali e inattaccabili, vanto per un servizio pubblico. Cosa che di certo non si può dire dell’inchiesta su Moro: basata su una tesi precostituita e blindata – Moro fu ucciso, come già John Fitzgerald Kennedy, per evitare che l’Italia uscisse dalla logica postbellica di Jalta – è fondata sul principio base della mentalità complottista secondo la perfetta definizione dello storico Richard Hofstader: il salto dall’innegabile all’incredibile. A qualcuno faceva comodo la morte di Moro? Senz’altro. Qualcuno si mosse per indirizzare il sequestro verso l’epilogo peggiore? Certo. Ma queste evidenze chiamano in causa la politica e la ricerca storica. Diventano invece nella narrazione complottista la porta di un universo parallelo in cui la prima vittima è la logica. Il caso Moro è effettivamente un intrigo internazionale, una partita doppia e tripla sulla vita dello statista democristiano, ciò che non cancella una verità di base chiara: Moro fu rapito da un’organizzazione terroristica di stampo marxista-leninista e da questa ucciso, come decine di altre vittime. Esattamente l’ultima delle idee che un ventenne potrebbe farsi dopo aver letto la maggior parte dei libri sull’argomento e visto l’inchiesta di Report.

C’è un unico passaggio nell’inchiesta che solo per un attimo, involontariamente, indica allo sguardo dello spettatore un’altra direzione. Succede durante un’intervista rubata a Giovanni Senzani, leader dell’ultima e ancora più efferata stagione delle Br. In realtà Senzani, a dispetto della presentazione del filmato, non dice nulla di interessante o rivelante, e tanto meno conferma le tesi dell’inchiesta. Dice però questo, con tono profondo e sincero: “Moro era una figura ammirevole”. Una perla di verità che, ancora più a distanza di quasi cinquant’anni, spalanca lo sguardo su un’evidenza trascurata: l’enorme distanza etica e intellettuale tra la vittima e i suoi aguzzini, un fattore umano che del caso Moro continua a spiegare molto più di dieci cento mille teorie “alternative”.