Come può Sinner diventare l’orgoglio italiano se non paga le tasse in Italia?”, ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera all’indomani della sua (di Sinner) straordinaria performance australiana. Quest’ultimo ha educatamente glissato sul tema fiscale, spostando l’attenzione sui vantaggi professionali e non offerti dall’ambiente monegasco. Ma veramente, per essere un buon italiano, è necessario non solo e non tanto pagare le tasse in Italia (cosa che è ovvia se si lavora e risiede in Italia) ma “desiderare” di pagare le tasse in Italia tanto, per esempio, da rinunciare a un contesto per altri versi più favorevole? E veramente ogni italiano dovrebbe guardare con una punta di biasimo tutti coloro che, avendone la possibilità e nel rispetto delle regole, trovano altrove un ambiente lavorativo e, perché no, anche fiscale più stimolante, nel primo caso, e accettabile, nel secondo?
Molti solleveranno il sopracciglio, ma la risposta è – o dovrebbe essere – “no” tanto nel primo caso quanto nel secondo. Certo, se lavorando e risiedendo in Italia si potesse anche votare per avere un diverso rapporto con il fisco e, per suo tramite, con lo stato il “no” sarebbe un po’ meno fondato. Un buon italiano dovrebbe cercare di cambiarlo questo paese gli strumenti che ha a disposizione. Anche votando. Ma che cosa fare quando gli strumenti sono inutilizzabili o inservibili?
Jannik Sinner è nato quando questo secolo era appena cominciato. La pressione fiscale era appena superiore al 40 per cento e tale è rimasta fino alla crisi del 2008. Passata la bufera, la pressione fiscale si è attestata fino al momento della pandemia poco al di sotto del 43 per cento per lì rimanere fino a oggi. Nell’area dell’euro si era poco al di sotto del 40 per cento fino al 2008, poco sopra il 41 per cento fra crisi e pandemia e al 41,3 per cento nel 2023. Un incremento complessivo di 1,9 punti percentuali rispetto ai 2,6 registrati dall’Italia. E come, poi? Il rapporto fra imposte dirette (sul reddito e sul patrimonio) – un indicatore certamente molto rozzo del grado di progressività del sistema – e totale delle entrate correnti è rimasto in Italia sostanzialmente stabile nel ventennio o poco più che ci separa dall’anno di nascita di Sinner e appena superiore al 31 per cento. Stabile come nell’area dell’euro dove si attestava però poco al di sopra del 29 per cento. Stabile non è rimasto in Germania (dal 27,0 degli anni pre crisi al 25,9 dell’ultimo triennio) o in Francia (dal 23,9 al 23,2 negli stessi intervalli di tempo) o anche in Olanda (dal 26,7 al 24,9) o, ancora, in Portogallo (dal 22,9 al 21,7). Insomma, un paese di santi, poeti, navigatori e di tasse sempre maggiori e sempre più (relativamente) progressive.
Il punto è che in questi ventidue anni in cui Sinner cresceva fino a diventare il campione che è già, al governo dell’Italia si succedevano i governi più diversi sorretti da maggioranze ancora più diverse. Rosa più o meno intenso, azzurre, grigie di diverse sfumature, giallo-verdi, giallo-rosse: l’intera tavolozza. Tutte (per correttezza andrebbe fatta una eccezione per la maggioranza in carica che per il momento sembrerebbe volersi distinguere) accomunate però non da un obbiettivo programmatico ma da una prassi di governo: più tasse e sempre più (relativamente) progressive. Che cosa avrebbe mai potuto votare un italiano che avesse desiderato risiedere e lavorare in Italia ma, anche a costo di una riduzione di alcune prestazioni e di alcuni servizi non proprio essenziali, avesse voluto godere legittimamente ed in misura maggiore dei frutti del proprio lavoro? Diciamo la verità: nulla. E quando la voce (il voto) non trova modo di esprimersi non rimane – come ci ha insegnato Charles Tibout oltre sessant’anni fa – che “votare con i piedi”. Se lo si può fare, ovviamente. Il che, va detto, è profondamente iniquo. E distingue all’interno della collettività i pochi che possono “votare con i piedi” dai tanti i cui piedi – per mille ragioni – hanno messo radici. Ma questo è l’ennesimo esempio di quanto ironica possa essere la realtà: tanti pensano che più tasse e sempre più (relativamente) progressive siano uno strumento di eguaglianza. La realtà si incarica puntualmente di smentirli.