Imparare a vivere, di Maurizio Ferraris, Laterza, 2024
Maurizio Ferraris (Torino, 1956) dal 1995 è professore ordinario di filosofia teoretica nell’Università degli Studi di Torino. Grazie ai suoi innumerevoli articoli su quotidiani come Il Sole 24 Ore e la Repubblica e a una sua trasmissione televisiva per il canale culturale Rai Scuola (Zettel – Filosofia in movimento), Ferraris è divenuto una celebrità della scena filosofica italiana. Nel 2012 il suo “Manifesto del nuovo realismo” ha aperto un’ampia discussione che non ha equivalenti nella recente storia culturale.
Tutto comincia con una caduta accidentale che rompe l’omero al filosofo sessantottenne. Un incidente banale, un inciampo, e la vita sembra darci un avviso, suggerirci che tutto quello che avevamo ritenuto stabile, assodato, potrebbe andare in pezzi. La fatica per rimettersi in sesto gli fa scoprire la decadenza a cui non aveva prestato attenzione e che si è manifestata un pò come una imboscata. Si può imparare a vivere? La risposta in un certo senso sembra ovvia, certo che sì, mentre io scrivo queste cose e voi leggete, stiamo vivendo. Ma al di là dell’ovvio c’è un aspetto valutativo da assumere, che trasforma la domanda in “come si può imparare a vivere bene?”. Come nel caso in cui chi sta respirando cerca di imparare una tecnica per respirare meglio, più profondamente.
Ferraris ragiona con una prosa lucida e chiarissima (un’eccezione rispetto a certi suoi oscuri colleghi filosofi) intorno all’esistenza, alla stratificazione di esperienze e memorie che sono il modo in cui ciascuno di noi impara a vivere. Il libro nel suo percorso si ferma in quattro stazioni, vivere, sopravvivere, previvere, convivere.
Il primo grande inganno, egli confessa, era stata l’idea (che abbiamo avuto in tanti da giovani) che ci fosse un qualche libro, prima di letteratura poi di filosofia, da cui fosse possibile trarre degli insegnamenti utili sull’argomento. Riavvolgendo il nastro, quando pensi di aver imparato a vivere, ti manca il tempo per farlo, non ti resta che rammendare o rammentare quello che ti sei lasciato dietro.
Nel nostro vivere si forma l’esperienza che viene dagli anni, la quale insegna che a vivere, se non si impara, almeno ci si abitua, e questa abitudine induce a rimanere attaccati alla vita anche quando non sembra ragionevole farlo. “Non è vero che ad una certa età si ha appunto quella età; si hanno anche tutte le età che l’hanno precedute, che si sommano, convivono spesso litigiosamente, non sanno mettersi d’accordo” (Derrida)
La gioventù non è necessariamente una età felice poichè in quegli anni c’è la ricerca consapevole dell’imparare a vivere e di un qualche modo (prontuario, manuale, adesione ad un gruppo o ad una ideologia condivisa) che funga alla bisogna. Il più delle volte senza saperlo, cioè con un agire che precede il capire, ed è il motivo per cui da giovani ci si nutre di narrazioni di ogni tipo.
I bambini col gioco imitano gli adulti ma c’è un momento in cui non sono più bambini e il loro non è più un gioco, è la vita. Il previvere è la vita vissuta imitando qualcosa o qualcuno, pagine lette, film, racconti che abbiamo ascoltato o semplicemente gesti che ci hanno colpito come il colpo letterale del genitore violento che genera, magari, il serial killer. Fino a 31 anni, per metà della sua vita, Ferraris si è letto sette volte la Recerche di Proust per mettere alla prova l’assunto generale di Proust, secondo cui un libro è un paio di occhiali fatto per leggere in noi stessi e per dire che, sì, è proprio così che funziona la vita. Allora si domanda: ” ho imparato a vivere, per quel poco che ho imparato, anche grazie a Proust? Credo di sì, ammesso che abbia imparato a vivere. Significa che ho imparato a vivere bene grazie a Proust? Non saprei”. Comunque la vita vera è intessuta in modo inestricabile con il racconto, l’invenzione, la vita finta. E uno dei meriti della vita finta, paradossalmente ma non troppo, consiste nel gettare un pò di luce sulla vita vera.
Un altro inganno degli uomini riguarda il sopravvivere. Una volta morti, si resta immortali con i libri o con le opere, o con i monumenti? Quando non ci sei più tu non c’è più niente, cioè appunto (Vittorio Sereni) nulla nessuno in nessun luogo mai. Sopravvivere offre una dubbia consolazione; la resurrezione delle religioni è una promessa a cui i più non credono; l’unica speranza è quella di rinascere ogni giorno nei limiti del possibile.
Imparare a vivere vuol dire anche imparare a convivere, a stare insieme (bene o male, serenamente o nevroticamente) con gli altri umani. In questo caso entrano in gioco quegli elementi decisivi che sono i sentimenti, le intenzioni, i bisogni che ci accomunano agli altri organismi.
Manipolare apparati tecnici, siano essi un apriscatole o un software di intelligenza artificiale, è uno degli atti più caratteristici dell’umano, così come allacciarsi le scarpe e coniugare i verbi , e sono tutte cose che col tempo si imparano. Ma imparare a vivere bene comporta anche un lato sociale, interpersonale, sentimentale: l’avere a che fare non solo con oggetti o strumenti, ma anche con degli altri io.
Ego cogito, ergo sum, da solo è poca cosa se non viene integrato con coloro con cui abbiamo rapporti, amici o nemici. Il modo migliore per imparare a vivere è capire come convivere, litigiosamente quanto si vuole, ma convivere. E se non avessimo dei racconti comuni, una qualche forma di cultura condivisa, un sapere accettato, se insomma non avessimo imparato a vivere, come conviveremmo? Non basta accarezzarsi e tenersi per mano come fanno gli innamorati, la forza maggiore la si riceve dalla scrittura, dal sapere, dal racconto e dalla letteratura, dai film o dalle canzoni, dal mondo sociale che ci tiene uniti non solo in quanto animali, ma in quanto animali umani. Imparare questo è il primo e ultimo passo per imparare a vivere. Ed è un passo a volte difficilissimo. Come non si nasce imparati, così non si muore imparati e, soprattutto, imparati o no, si muore. In questo senso, l’impulso a scrivere rientra sicuramente tra le strategie di sopravvivenza, così come costruire monumenti, averi eredi, e purtroppo anche invadere la Polonia o compiere altre efferatezze.
La morte, secondo gli epicurei, non ci raggiungerà mai, visto che o ci siamo noi o c’è lei. Heidegger ha imbastito una complessa requisitoria contro quella esperienza fasulla della morte che è il lutto, considerandolo, sebbene sia naturalissimo, un comportamento intimamente ipocrita. Perchè guardando la morte altrui si finge soltanto di avere una esperienza in prima persona della morte con quella che è, con ogni evidenza, una esperienza in terza persona: basti dire che noi soffriamo, se soffriamo, mentre il morto non prova più alcun sentimento.