La recente vicenda in cui è incappata la filosofa Donatella Di Cesare è interessante e istruttiva. Ricapitoliamo i fatti.
Il 4 marzo scorso, all’età di 75 anni, viene a mancare Barbara Balzerani, brigatista rossa, unica donna nel commando che rapisce Aldo Moro. Arrestata nel 1985, era rimasta in carcere per più di 20 anni, e nel 2011 era tornata in libertà, dopo 5 anni di libertà condizionale.
Appresa la notizia, la prof.ssa Di Cesare, che insegna Filosofia teoretica alla Sapienza, posta il seguente pensiero:
La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna.
Come era facilmente prevedibile, si scatena una bagarre mediatica. La professoressa rimuove il post, e spiega che lo ha rimosso in quanto accortasi che “non solo veniva frainteso, ma veniva anche utilizzato per scatenare una polemica”.
A quel punto le autorità accademiche minacciano sanzioni, e qualche giorno dopo una sua lezione viene interrotta da alcuni giovani di Forza Italia, che mostrano dei cartelli con le foto di alcune vittime delle Brigate Rosse. La professoressa, che comunque riesce a terminare la lezione, accusa i giovani di Forza Italia di aver messo in atto una “violenta azione di squadrismo”, e lamenta che non le viene consentito di svolgere il suo insegnamento.
Perché la vicenda è istruttiva?
Fondamentalmente, perché in essa si presentano in modo paradigmatico un po’ tutti i problemi – e gli interrogativi – della libertà di espressione.
Primo problema, può un docente (ma vale a maggior ragione per chi fa altri mestieri) essere sanzionato dall’Università per le idee che esprime al di fuori del ruolo che ricopre? Il post della Di Cesare era su una piattaforma social, non su una slide di Power Point mostrata agli studenti durante una lezione.
A quel che si apprende, “la Sapienza ha avviato un iter di cui è stato informato il Ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini”. Se stiamo ai precedenti, l’università potrebbe sanzionare la docente, come ha già fatto l’università di Milano con il prof. Marco Bassani, colpevole di aver condiviso sui social una vignetta ritenuta offensiva su Kamala Harris, vice presidente USA.
Secondo problema, qual è il confine fra la libertà di espressione, e il diritto di manifestare il dissenso?
Difficile non rilevare il doppio standard con cui la questione viene affrontata, specie a sinistra. Da un lato, una breve, silenziosa, interruzione di una lezione come quella attuata dai giovani di Forza Italia, viene classificata come squadrismo, dall’altro azioni effettivamente squadristiche vengono derubricate a legittime manifestazioni del dissenso nei casi, sempre più numerosi, in cui a un relatore viene impedito fisicamente di parlare. Penso a quel che è successo nei giorni scorsi al giornalista David Parenzo, o al direttore di Repubblica Maurizio Molinari, ma anche ai numerosi casi del passato, in cui – spesso in nome dell’antifascismo – è stata negata la parola a personaggi sgraditi ai collettivi studenteschi.
Terzo problema, quali sono – in una democrazia liberale – le idee che è inammissibile manifestare, e a chi tocca sanzionare chi le manifesta?
Personalmente, stento ad accettare che la censura possa toccare opinioni che non configurano reati. Ma trovo semplicemente raccapricciante che un’università, una istituzione culturale, un’impresa possiedano o si auto-attribuiscano il diritto di comminare sanzioni sindacando la legittimità delle opinioni espresse da loro funzionari o dipendenti. Eppure, è questo che sta succedendo sempre di più, specialmente negli Stati Uniti, dove può capitare che una piattaforma di pagamenti come PayPal multi i suoi utenti, o ne congeli i fondi, solo perché hanno espresso opinioni che non collimano con i codici etici della piattaforma.
Tornando alla vicenda Di Cesare, credo che chi ama la libertà non possa in alcun modo auspicare sanzioni per il suo melanconico post. Semmai, dovrebbe invitarla a ripristinarlo. Perché anche il suo ragionamento, è istruttivo. Esso illustra infatti nel modo più vivido la tragedia del comunismo, e di una parte non trascurabile della generazione del ’68. Che si è perduta proprio perché è caduta nell’errore che Donatella Di Cesare reitera nel suo post, ossia credere che le idee possano essere distinte dalle “vie”, cioè dai mezzi, attraverso i quali si cerca di realizzarle.
(uscito su La Ragione il 19 marzo 2024)