Il problema con la Cina è che fa buone caramelle. O forse è Massimo D’Alema che ha smesso di mangiare zuccheri.
Qualche anno fa l’ex leader del Pds ed ex presidente del Consiglio scrisse un libro, A Mosca l’ultima volta, in cui raccontò un suo viaggio nell’Unione sovietica, lui giovane dirigente del Pci che accompagnava la delegazione del partito in occasione dei funerali di Jurij Andropov. D’Alema affidò a un aneddoto il giudizio su quell’Urss cadente degli anni Ottanta (era il 1984). Scrisse di aver capito definitivamente che l’impero era destinato a cadere presto perché le caramelle russe, glielo fece notare Enrico Berlinguer che era con lui a Mosca, erano uno schifo. L’impasto di cui erano fatte era così scadente che le caramelle non si riuscivano nemmeno a scartare. Finivano mezzo incollate e mezzo sbriciolate. Efficace immagine per simboleggiare il disfacimento del comunismo sovietico.
Due giorni fa D’Alema, che nella sua nuova vita è conferenziere, consulente, mediatore di affari, è stato a Pechino per intervenire a un convegno organizzato dal Partito comunista cinese, il “Forum internazionale della democrazia: i valori umani condivisi”. Se vi smuove qualche perplessità il fatto che un Paese come la Cina organizzi un convegno per autoiscriversi alle democrazie e ragionarci su, è perché non avete capito bene il senso dell’evento, che non serviva a sostenere banalmente che la Cina sia una democrazia, bensì ad affermare che la Cina è una democrazia migliore delle morenti democrazie ufficiali. Per questo hanno invitato D’Alema. L’ex capo della sinistra italiana – deve essere un contrappasso dei suoi elettori cumulare ex leader che girano il mondo a omaggiare dittature – è salito sul palco e ha intonato il de profundis della democrazia occidentale, che “ha perso credibilità ed efficacia”, “soffocata dal potere del capitalismo globale”, indebolita dalla “decadenza delle classi dirigenti” e “da fenomeni di populismo”. Tutti argomenti validi in sé, un po’ meno considerando il fatto che ad applaudire D’Alema in platea c’era la nomenclatura di un partito-regime, felicissimo di sentirsi dire quanto marcia sia la democrazia occidentale. Sia il China Daily, organo ufficiale, sia la tv di Stato cinese sia l’ambasciata in Italia hanno rilanciato con entusiasmo il video dell’intervento di D’Alema, con il suo inglese lento e scandito cui mancano solo un “we can say” o un “frankly” a restituire l’inconfondibile marchio personale.
Si può andare a Pechino a discutere degli oggettivi guai delle nostre democrazie senza dire di Taiwan, del tallone cinese su Hong Kong, dei metodi con cui il Pcc gestisce il potere e il dissenso? Per D’Alema sì. Qualche mese fa, ne scrissi sempre su ‘Hanno tutti ragione’, l’ex presidente del Consiglio mandò in stampa un numero della rivista Italianieuropei tutto costruito sull’esultanza per la sfida di Cina e Russia all’egemonia americana, numero dove anche l’invasione dell’Ucraina era presentata come un passaggio, nemmeno esecrabile, di questa benemerita disfida per ridisegnare gli equilibri geopolitici. Sappiamo quanto proliferi questa nuova specie di relativismo, secondo il quale è sbagliato criticare i modelli non democratici in quanto l’Occidente è e fa peggio, anzi dovrebbe cominciare a prendere atto che il futuro sta nelle democrature, crasi di democrazia e dittatura (D’Alema ci spiegherà in un altro numero della rivista, forse, come mai queste autocrazie così convinte di essere superiori alle vetuste democrazie abbiano bisogno di simulare l’esistenza di democrazia in casa propria, con le elezioni farsa come in Russia o con convegni barzelletta come a Pechino).
Mi è tornato allora in mente l’aneddoto delle caramelle sovietiche. Ho pensato al fatto che, forse, ciò che più disturbava il giovane D’Alema comunista – preso a modello di un’antropologia non certo estinta dopo il crollo del muro di Berlino – non fosse il regime sovietico in sé ma la sua sconfitta, il suo cedimento all’avversario storico. La Cina ha i suoi problemi – talvolta nascosti attraverso la censura di numeri e dati economici, anche di questo D’Alema parlerà un’altra volta – ma è tutt’altro che un Paese morente. Ovviamente non è nemmeno un Paese comunista, perché per dar da mangiare a un miliardo di cittadini ha scelto da lustri di giocare la partita in quello stesso capitalismo che a D’Alema fa impressione solo se ha il simbolo del dollaro (quando D’Alema abbia maturato questa idiosincrasia è ulteriore tema da approfondire in altra sede, ne pareva immune quando da capo del governo partecipò all’operazione Nato su Belgrado). La Cina può vincere. Per questo passano in secondo piano i suoi limiti interni. Anzi, si può persino suggerire che a vederli, questi limiti, siamo solo noi occidentali, con le nostre distorte lenti ideologiche di paladini della finta democrazia formale, magari anche di cumulatori seriali di privilegi, maschi bianchi eccetera eccetera (è noto che la foto del plenum del congresso del Pcc è confondibile con una assemblea della Casa delle donne). La Cina sta sfidando l’ordine globale costituito e non importa se lo fa da Paese non democratico: conta che prevalga. La Cina può riuscire là dove fallì l’Urss. Una verità, e per molti anche una speranza.
Non ricordo come siano le caramelle cinesi, ma sono certo che a D’Alema stavolta non importerebbe granché se anche dovessero incollarsi alla carta. Mi chiedo solo se, anche solo per un momento, al D’Alema pechinese sia tornato in mente cosa gli disse Berlinguer, proprio un attimo prima di fargli notare quanto immangiabili fossero le caramelle moscovite. Le parole di Berlinguer, riportate nel libro da D’Alema, sono queste: “Vedi, questa è la prima legge generale del socialismo reale: i dirigenti mentono, sempre, anche quando non sarebbe necessario”. L’altro giorno, alla tv di regime cinese, parlava D’Alema.