I bipopulisti pensano che la spesa pubblica sia gratuita

L’Italia è nota e apprezzata nel mondo per la buona tavola. E ne siamo tutti orgogliosi. Tra i tanti primati negativi che abbiamo (compensati, è giusto dirlo, da numerose virtù, spesso sottovalutate) non vorremmo che ci fosse anche quello di aver inventato, e in qualche modo brevettato, la tradizione dei pasti gratis. Specialmente quando il conto viene recapitato a qualcun altro, estraneo all’ideale banchetto, e ignaro di doverne sopportare le conseguenze.

Espressa così, sembra ed è una beffa. Chi mai potrebbe accettare un simile raggiro? Ma portata su scala nazionale, proiettata sulle grandi cifre, la pratica del pasto gratis si è trasformata in un’abitudine consolidata, in una scelta all’apparenza persino virtuosa. A cura di uno chef di volta in volta di colore politico diverso ma abbagliato dalla stessa identica tentazione: offrire un menu allettante con ingredienti considerati gratuiti.

Purtroppo, non funziona in questo modo. I conti si saldano sempre e, come cercheremo di dimostrare nel libro, è sempre bene farli con l’oste. L’oste, del resto, siamo noi. Una considerazione semplice, quasi banale, troppo spesso taciuta da chi ha responsabilità di governo, e poco comprensibile per cittadini scarsamente informati.

Il caso più emblematico di spesa presentata come priva di costi è certamente quello del Bonus 110 per cento. Lo ricordiamo bene Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, quando, durante i numerosi e affollati comizi della campagna elettorale nell’autunno del 2022, ripeteva come un mantra: «Il tutto, lo sapete, lo state facendo gratuitamente». Nelle piazze del Paese, l’«Avvocato del Popolo», come egli amava farsi chiamare, giocava il suo formidabile jolly, ossia la misura che consente di ristrutturare le abitazioni senza dover spendere un euro: il rimborso, infatti, è superiore al costo dell’intervento. Una magia che, però, è durata poco.

L’agevolazione si è dimostrata ben presto distorsiva, inefficiente, regressiva e, soprattutto, estremamente onerosa. Solo un anno e mezzo dopo l’avvio, nel febbraio del 2022, Daniele Franco, ministro dell’Economia e delle Finanze del governo Draghi, la definirà «una truffa tra le più grandi che la Repubblica abbia mai visto».

Ciononostante, verrà prorogata. Ed ecco un’altra anomalia: se davvero si trattava di una grande truffa, perché non interromperla subito, con fermezza? Semplice: adottare pasti gratis è facilissimo, mentre eliminarli è quasi impossibile. Quando è accaduto, la scelta è stata dettata da fattori esterni.

Per fare un esempio, gli eccessi raggiunti e le mutate condizioni macroeconomiche costringeranno l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni a ridimensionare proprio il Bonus 110 per cento. «Ha generato centoventi miliardi di minori incassi per lo Stato spalmati fino al 2026» spiegherà il titolare del dicastero economico Giancarlo Giorgetti in un convegno tenutosi a Roma nel marzo del 2023. «Pertanto, questa stagione non tornerà più.»

La decisione, come prevedibile, non piace agli esponenti del Movimento 5 Stelle. Dal loro punto di vista, il provvedimento è indispensabile per il rilancio di un settore fortemente in crisi come quello delle costruzioni. E poi, sostengono, l’impatto in termini di maggiore crescita è molto significativo.

D’accordo, in linea di massima vi è sempre un impatto quando si eroga denaro pubblico. Il punto è capirne la dimensione e il costo reale; soprattutto, si tratta di capire chi paga. Perché spendere senza criterio è sperpero – la differenza non viene colta –, e l’idea che farlo sia sempre opportuno e conveniente è di per sé una rappresentazione falsata della realtà.

Nel caso specifico del sussidio edilizio, una prima stima dei costi la fornisce proprio Meloni. «È costato duemila euro a ogni italiano, anche a un neonato» afferma nella sua rubrica social. La replica di Conte non si fa attendere ed è inequivocabile. «C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel ragionamento della premier» ammonisce due giorni dopo in un’intervista. «Io non ho mai detto che il Superbonus era una misura che non costava niente: è gratis per le famiglie, non per lo Stato.»

È curioso notare che nel pensiero di Conte lo Stato non siamo noi, bensì qualcosa di estraneo ai nostri destini, un’entità soprannaturale. Le sue disavventure e i suoi debiti non ci appartengono. E invece è bene non scordarlo mai: i debiti dello Stato sono i debiti degli italiani. Tuttavia, il leader pentastellato non è l’unico a spiegare che sì, la spesa gratis esiste. Quella di distribuire risorse facendo passare il messaggio che non ci sono costi per nessuno è stata un’operazione irresistibile per chi ha guidato il Paese dopo l’ultima crisi finanziaria. Serviva una discontinuità, un taglio netto con un periodo in cui i cittadini avevano sopportato enormi sacrifici a causa delle misure che in molti definirono da «lacrime e sangue».

Facciamo quindi un passo indietro, e torniamo all’inizio del mese di novembre del 2011, con lo spread salito oltre 570 punti base. Questo termine inglese, che significa «scarto», viene usato per calcolare la differenza tra i rendimenti decennali italiani e quelli tedeschi. Tende a crescere quando diminuisce il grado di affidabilità di una determinata economia, perché chi ne compra il debito chiede in cambio tassi d’interesse più elevati. Prima della crisi, lo spread era pressoché sconosciuto ai non addetti ai lavori; peraltro, quello sui nostri titoli era rimasto su livelli relativamente bassi, non avendo mai superato la soglia dei 40-50 punti base. Alla fine dell’estate, tuttavia, la situazione era cambiata in maniera drastica, e il differenziale aveva iniziato a salire velocemente: l’instabilità politica – l’allora premier Silvio Berlusconi si sarebbe dimesso di lì a poco –, unitamente a un quadro macroeconomico e finanziario a rischio di sostenibilità, stavano minando la fiducia degli investitori. Intervenire era dunque essenziale per mettere sotto controllo i conti pubblici.

Bisognava innanzitutto ridurre il disavanzo, ossia la differenza tra quanto lo Stato spende e quanto incassa con le tasse ogni anno. E, di conseguenza, il debito, che poi non è altro che la sommatoria dei disavanzi registrati nel tempo. Il nuovo esecutivo, con a capo Mario Monti, fu costretto a compiere un forte aggiustamento di bilancio con tagli e inasprimenti della pressione fiscale. Inevitabilmente, il «governo dei professori» divenne molto impopolare, anche se al momento dell’insediamento era stato salutato come una sorta di gabinetto d’emergenza, tecnicamente autorevole ma privo di una legittimazione delle urne.

Sulla scorta di quella sofferta esperienza, le coalizioni che si succederanno, sebbene diverse per composizione e agenda politica, faranno la medesima promessa: «Basta con l’austerità». L’impegno è tornare a spendere, possibilmente senza vincoli e, quindi, senza costi apparenti. Il concetto di spesa gratis, d’altra parte, è un collante formidabile, mette tutti d’accordo: forze politiche, organizzazioni sindacali, cittadini. Un caso indicativo è quello dei vaccini durante la pandemia di Covid-19. Nessuno li paga, giustamente, ma ciò non significa che non abbiano un costo. Tutt’altro, vengono finanziati con le tasse dei contribuenti. Eppure, passa il messaggio che – complice anche l’emergenza – siano gratuiti.

A questo proposito, vale la pena ricordare che l’allora ministro della Salute Roberto Speranza ebbe a dire che la spesa sanitaria, proprio perché necessaria, non era assimilabile alla spesa pubblica. Una logica estesa immediatamente ad altre voci. In molti, per esempio, chiesero test gratuiti per accertare la presenza, o meno, del virus. Nello specifico, Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, in un’intervista rilasciata nella fase più drammatica della seconda ondata dei contagi da coronavirus li reclamò dicendo: «Chi lavora non deve pagare i tamponi». Una richiesta paradossale: se fosse stata accolta, si sarebbe trasformata in un boomerang. I tamponi sarebbero stati messi a carico della collettività, quindi anche dei lavoratori dipendenti che lo stesso Landini rappresenta, con l’effetto perverso che i cittadini in difficoltà li avrebbero sovvenzionati anche per i più fortunati. Un vero cortocircuito.

Il punto, del resto, è semplice, persino banale: c’è sempre qualcuno che alla fine paga.