Quando Matteo Renzi giura come primo ministro di fronte al presidente Giorgio Napolitano, il 22 febbraio 2014, il debito pubblico supera di poco i 2.100 miliardi di euro. Circa dieci anni e cinque governi dopo, alla fine di gennaio 2024, è di 2.848 miliardi, e oggi ha probabilmente superato i 2.900 miliardi.
Pur tenendo conto dell’inflazione che si è manifestata nel 2022-23, come è possibile spiegare una crescita di circa il 40 per cento durante un periodo di cui molti direbbero che è stato segnato dalle “politiche di austerità”? La risposta non dipende unicamente dalle spese eccezionali (e in parte irresponsabili o eccessive) sostenute durante il periodo pandemico e poi per la crisi energetica. Infatti, nel febbraio 2020, prima del Covid, il debito già sfiorava i 2.500 miliardi.
La realtà è che nell’ultimo decennio di austerità ne abbiamo vista molto poca. E, a dispetto del vorticoso avvicendarsi di commissari per la revisione della spesa a Palazzo Chigi, le uscite hanno continuato ad aumentare, non solo posizionandosi sistematicamente al di sopra delle entrate, ma crescendo a un tasso superiore a quello del pil. E quindi, anno dopo anno, abbiamo accumulato debito.
L’ultimo libro di Veronica De Romanis, “Il pasto gratis” (Mondadori), rappresenta al tempo stesso un manuale di storia delle finanze pubbliche e di retorica politica: ricostruisce sia la dinamica della spesa e del debito sia le parole che l’hanno accompagnata, regalando agli elettori quello che volevano (maggiore spesa o minori tasse) e nascondendo il prezzo che avrebbero dovuto pagare (il debito, appunto).
Così, se Renzi e Paolo Gentiloni hanno pudicamente chiamato “flessibilità” la maggiore spesa, con i due governi guidati da Giuseppe Conte sono arrivati prima l’illusione della spesa “che si paga di sé” e poi l’ubriacatura del “gratuitamente”. Infine, con la sola imposizione delle mani, Mario Draghi ha chiamato “buona” quella spesa che, né più né meno di quando era “cattiva”, ha generato debito e sottratto ossigeno alla politica economica dei governi successivi. Ciascuno di questi leader aveva le sue buoni ragioni e sperava di poter cogliere una qualche esigenza della società, coniugando politiche popolari con lo stimolo alla crescita: De Romanis racconta così le vicende degli 80 euro, delle riforme gemelle di Reddito di cittadinanza e Quota 100, della stagione dei (super) bonus e infine del Pnrr. L’autrice coglie una sorta di regolarità della politica italiana: praticamente nessun bonus, nessuna spesa fiscale, nessun nuovo programma viene effettivamente eliminato dalle maggioranze successive, che anzi tendono a sussumerlo nelle proprie politiche.
L’ultimo capitolo è dedicato a Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti, che si trovano costretti a gestire questa pesante eredità. Sicché, la spesa facile (Renzi e Gentiloni), miope (Conte 1), illimitata (Conte 2) e buona (Draghi) finisce per lasciare alla destra di governo un’eredità “difficile”. La leader di Fratelli d’Italia si trova costretta a navigare su un canale strettissimo, dovendo governare un’epoca di bassa crescita e segnata dall’esplosione della spesa e del debito. Non senza commettere errori: De Romanis racconta per esempio lo scivolone dell’imposta sugli extraprofitti delle banche.
La conclusione è segnata dalla preoccupazione, non solo per la congiuntura economica, ma anche per la vista retrospettiva sulla strada percorsa. Se i governi hanno potuto nascondere la bomba a orologeria che stavano caricando, è anche perché gli elettori non sono sufficientemente attrezzati per cogliere l’inganno. La riforma più importante, allora, è quella della scuola. Questo libro è un complemento educativo importante per spiegare agli italiani che la politica italiana, come le favole, ha una sua bella morale nella coda: nessun pasto è gratis.