Mi dichiaro un «pentito della Nato». Il Patto Atlantico compie 75 anni. È un anniversario denso di preoccupazioni per il futuro. La Nato con i suoi aiuti inadeguati e tardivi non è riuscita a fermare l’avanzata di Vladimir Putin in Ucraina. Lo shock dell’invasione russa in una prima fase ha rafforzato la Nato, spingendo Finlandia e Svezia a uscire da un’antica neutralità e a schierarsi con l’Occidente. Ma un conto è la geografia politica dell’Alleanza, altra cosa è la sua effettiva capacità di difesa. Molte forze armate europee e molte industrie militari europee sono ai minimi storici. Durante la guerra fredda l’Europa era vissuta al riparo della difesa americana, come una parassita della sicurezza, investendo poco nelle proprie forze armate. Dopo il 1991 e la dissoluzione dell’Unione sovietica, è andata addirittura verso un ulteriore dimagrimento e smantellamento della propria difesa. L’Europa intera è sprofondata in un lungo letargo geopolitico, un’ibernazione popolata di sogni e utopie: l’illusione di essere la prima «superpotenza erbivora» della storia, capace di esercitare una grande influenza mondiale solo per la bontà del proprio modello civile, sostanzialmente disarmato. Nel frattempo Putin preparava la ricostruzione dell’impero russo. Ma né con la guerra in Georgia del 2008 né con l’annessione della Crimea nel 2014 né con l’aggressione all’Ucraina nel 2022 l’Europa ha cambiato passo. La minaccia russa non è bastata a cambiare l’illusione «pacifista» delle opinioni pubbliche.
Non conta nulla il fatto che per 75 anni, cioè ormai per quattro generazioni, gli europei hanno vissuto nella pace, nella sicurezza, con un livello elevato di libertà e di diritti, perché difesi dalla Nato?
Mi dichiaro un pentito della Nato perché da giovane facevo parte del fronte anti-atlantico. Sono sceso in piazza contro la Nato quando avevo vent’anni, come molti della mia generazione. Sull’Urss del periodo comunista io conservo dei ricordi molto personali e precisi: a 21 anni debuttavo nella stampa del Pci allora guidato da Enrico Berlinguer; poiché ero cresciuto all’estero e parlavo un po’ di lingue straniere, spesso venivo infilato nelle delegazioni ufficiali in visita ai congressi dei partiti «fratelli»: Mosca, Leningrado (oggi San Pietroburgo), Varsavia, Berlino Est.
In Italia ho vissuto «in piazza» la crisi degli euromissili quando, nella seconda metà degli anni Settanta, Mosca tentò di spezzare la solidarietà atlantica mettendo alla prova l’ombrello nucleare americano sull’Europa occidentale. L’Armata rossa poteva dispiegare testate nucleari a poca distanza dai nostri confini, in più aveva l’appoggio politico di una parte dell’opinione pubblica nei paesi europei della Nato: dai forti partiti comunisti di Italia e Francia, fino ai pacifisti, che adottarono lo slogan «meglio rossi che morti».
Tenne duro in favore di una risposta determinata della Nato (lo schieramento degli euromissili) il binomio franco-tedesco, grazie all’intesa fra il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt e il presidente liberale Valéry Giscard d’Estaing, ma le piazze d’Europa erano piene di manifestazioni anti-missili (solo ed esclusivamente quelli americani), quindi di fatto neutraliste e oggettivamente filosovietiche. Noi di sinistra eravamo in prima fila a promuovere quelle manifestazioni a senso unico, nelle quali il pericolo russo era ignorato. Un pezzo di Occidente era disposto ad alzare bandiera bianca, vuoi perché impressionato e intimidito dalla forza bellica di Mosca, vuoi perché indifferente alla difesa dei valori liberaldemocratici, e quindi antimperialista a senso unico (contro l’egemonia dello zio Sam). «Finlandizzazione» si diceva allora, intendendo lo scivolare verso una neutralità subalterna, l’accomodarsi nel ruolo di vassalli dei russi. All’epoca la Finlandia era neutrale.
I missili SS-20 installati dall’Urss nel 1977, con testate atomiche puntate verso il territorio della Germania Ovest e di altri Paesi europei, erano un insidioso tentativo di «decoupling»: con quel vasto dispiegamento di missili a medio raggio, Mosca faceva balenare la possibilità di un conflitto nucleare limitato al teatro europeo. L’Urss voleva insinuare nei governi e nell’opinione pubblica dell’Europa occidentale il dubbio che gli Stati Uniti potevano non intervenire in loro difesa, visto che l’attacco atomico non minacciava il territorio americano. Il socialdemocratico Schmidt e il liberale Giscard chiesero all’America del democratico Jimmy Carter l’installazione di euromissili non solo per bilanciare gli SS-20 ma per confermare la solidarietà atlantica e la coesione dell’Alleanza.
Le manifestazioni a cui io partecipai nelle piazze di Roma e Milano erano imponenti, ma ancora più massiccia era la mobilitazione della sinistra tedesca. 400.000 manifestanti invasero le piazze per cercare di bloccare un voto del Bundestag (il Parlamento tedesco) che nel 1982 spianava la strada all’installazione degli euromissili.
In quelle manifestazioni oceaniche l’anima pacifista della Germania diede vita al «più vasto ed eterogeneo movimento di massa nella storia della Repubblica federale», come lo ha definito lo studioso Hans Kundnani. Guidavano quel movimento l’ex cancelliere socialdemocratico Willy Brandt (la cui carriera politica fu stroncata quando si scoprì che tra i suoi collaboratori c’erano delle spie sovietiche) e intellettuali di prestigio come il premio Nobel per la letteratura Günter Grass.
Gli euromissili in Italia sarebbero stati installati in Sicilia nel 1983. Enrico Berlinguer, pur avendo ufficialmente rotto con l’Urss, in quella battaglia decise di schierarsi dalla parte dei pacifisti, cioè della non risposta agli SS-20 sovietici. «Meglio rossi che morti» era uno degli slogan in voga nelle piazze, tedesche o italiane.
Un uomo di sinistra come Schmidt tenne duro e la storia gli ha dato ragione. Non siamo morti nell’Olocausto nucleare, né siamo diventati colonie di Mosca. I popoli che l’Urss aveva oppresso, non appena liberati dal suo giogo sono corsi a raggiungere la Nato per proteggersi dal ritorno d’imperialismo russo.
Un altro grande leader della sinistra europea, il socialista francese François Mitterrand, ereditò dal liberale Giscard la posizione sugli euromissili e la fece propria. Uomo di spirito, Mitterrand ebbe questa battuta fulminante per riassumere gli eventi di quegli anni: «I missili sono a Est, i pacifisti sono a Ovest». Tutti puntati contro di noi.
In seguito la Nato è stata accusata di altre nefandezze, come la partecipazione alla guerra in Afghanistan. Ma quell’intervento militare era stato provocato dalla strage di civili innocenti dell’11 settembre 2001, organizzata da Al Qaeda partendo dalle sue basi afgane e sotto la protezione dei talebani. Gli stessi che hanno denunciato la guerra della Nato in Afganistan come un’azione criminale, appena le nostre truppe si sono ritirate nell’estate 2021 hanno capovolto le accuse: gridando al tradimento, perché non eravamo più sul posto a difendere i diritti umani e le donne afgane.
Quattro generazioni di europei devono molto alla Nato: il privilegio di aver vissuto in un’area del mondo risparmiata dalle guerre, beneficiata da una prosperità e da un progresso inaudito. Nulla garantisce che il futuro sarà altrettanto radioso. Ora tutti puntano il dito contro Donald Trump: prima ancora che si tenga l’elezione americana lui viene già designato come il colpevole per il declino della Nato. In effetti Trump a volte ha evocato la possibilità che l’America esca dall’alleanza. Ma il vento dell’isolazionismo soffia anche nella sinistra Usa, basta ascoltare due candidati indipendenti e molto radicali come Robert Kennedy Jr e Cornell West. Inoltre la Nato è stata sabotata da dentro, per decenni, dagli europei che non ci credono. 75 anni di storia non hanno insegnato nulla? No, se la storia ciascuno se la reinventa in base alle proprie certezze ideologiche, e non accetta di riconoscere errori. Io ho sbagliato a vent’anni e non vorrei ripetere lo stesso sbaglio.