219 md la voragine della spesa edilizia/ La differenza tra Draghi e tutti gli altri bipopulisti

FRANCESCO CUNDARI Come scrive oggi Federico Fubini sul Corriere della sera, sui bonus immobiliari (anzitutto il contiano Superbonus 110 per cento e il franceschiniano Bonus facciate) «continua a mancare un’assunzione di comune responsabilità» da parte della politica. «Tutti i principali partiti che hanno governato in questi anni li hanno voluti. Li ha voluti l’intero centro-sinistra ai tempi di Giuseppe Conte. Sia centro-destra e centro-sinistra in maggioranza che Fratelli d’Italia all’opposizione hanno poi fieramente protestato nel 2021 e 2022, quando Mario Draghi e Daniele Franco cercavano di fermarli.

Infine il governo e la maggioranza attuali per un anno e mezzo hanno lasciato che il Superbonus continuasse a gonfiare il deficit, crivellando di scappatoie i decreti che avrebbero dovuto determinare una stretta».

Questa, ricordata da Fubini, è la pura e semplicissima verità dei fatti. Ma più che di una mancata assunzione di responsabilità bisognerebbe parlare di una piena assunzione di irresponsabilità, da parte della politica e anche di gran parte del giornalismo, degli industriali e della cosiddetta società civile.

Ogni giorno che passa, infatti, si scopre una nuova voragine nei conti pubblici, e si apre un dibattito in cui il governo cerca di scaricare ogni responsabilità sull’opposizione e l’opposizione, con l’aiuto di giornali e talk show amici, nega l’evidenza della catastrofe o tenta di ridimensionarla accusando il governo di cercare solo «un alibi».
Il caso mostra quale spirale autodistruttiva possa innescare l’egemonia populista.
L’anno scorso il Fatto quotidiano aveva lanciato una campagna contro tutti quei politici che dopo averne fatto l’elogio e chiesto la proroga o l’estensione si erano scagliati contro il Superbonus, a cominciare da Giorgia Meloni, che ancora nel settembre del 2022, in piena campagna elettorale, si diceva pronta «a tutelare i diritti del Superbonus e a migliorare le agevolazioni edilizie».

Il Fatto invitava i lettori a votare «la più grande faccia da Superbonus», ma dovrebbe consegnare il premio al suo direttore, Marco Travaglio, che ieri a Otto e mezzo ha avuto il coraggio di sostenere che il provvedimento avrebbe dovuto essere «a tempo» e «prevedere un décalage» (ma va?) solo che il povero Conte «l’ha varato e dopo otto mesi l’hanno mandato a casa», dunque «Conte l’ha gestito per otto mesi, Draghi l’ha gestito per 17 mesi».

Dimenticando di dire che in quei 17 mesi – come ricordava Fubini – Draghi ha provato più volte a intervenire e ha ripetutamente criticato la misura (critiche che non sono state l’ultima delle ragioni della rottura con il Movimento 5 stelle e dunque della caduta del suo governo, forse anche più della questione ucraina) e a fare muro è stata proprio la santa alleanza bipopulista formata dall’intera maggioranza, e come si è visto pure da Fratelli d’Italia, guidata ovviamente dal Movimento 5 stelle e dal Fatto quotidiano. Che ora gli ideatori e i massimi sostenitori del Superbonus accusino Draghi di non essere riuscito a fermarli dà la misura del livello di degrado raggiunto dal nostro dibattito pubblico.

Tuttavia è l’intera vicenda che un giorno andrà studiata come dimostrazione da manuale di quale spirale autodistruttiva possa innescare l’egemonia di un movimento populista, quando non incontri alcun argine né tra i partiti né tra i cosiddetti intellettuali, ma solo innumerevoli tentativi di imitazione.

LUCIANO CAPONE Giancarlo Giorgetti dice che l’effetto dei pagamenti del Superbonus “ha un impatto devastante” sul bilancio. Completamente imprevisto dalle stesse strutture tecniche del Mef, che hanno sottostimato il costo dei bonus edilizi arrivato a “219 miliardi”.

Una voragine senza precedenti nella storia della Repubblica. 

D’altronde, l’errore è troppo devastante e ingombrante per essere nascosto. Il 23 maggio 2023, in audizione alla Camera, il Mef rappresentato dai suoi vertici tecnici – il direttore generale del Tesoro Riccardo Barbieri, il direttore generale delle Finanze Giovanni Spalletta e il Ragioniere generale dello stato Biagio Mazzotta – stimavano in 116 miliardi il costo dei bonus edilizi (67 miliardi solo il Superbonus). Una cifra che, all’epoca, aveva già superato di 45 miliardi le previsioni di spesa delle relazioni tecniche dei provvedimenti (pari a 71 miliardi). Dopo meno di un anno si scopre che in sette mesi, da giugno a dicembre 2023, quella spesa è quasi raddoppiata passando da 116 a 219 miliardi (quasi 150 miliardi di euro oltre le stime iniziali).

In risposta a un’interrogazione sull’ammontare totale e sulla composizione dei vari bonus per le costruzioni, il Mef dice che il totale dei crediti fiscali dal 15 ottobre 2020 al 4 aprile 2024”, che è pari come detto a circa 219 miliardi, è composto da “160,3 miliardi per il Super-ecobonus e Super-sisma bonus e 58,7 miliardi per gli altri bonus previsti”.

La spesa dell’Italia sui bonus edilizi è mostruosa.

Basti considerare che 219 miliardi sono in valore assoluto pressoché pari alla somma degli investimenti del Pnrr (194 miliardi) e del Piano nazionale complementare (30 miliardi), ma in realtà è il doppio se si considera che la spesa per Superbonus e fratelli è concentrata in tre anni (2021-23) mentre quella per il Pnrr e il Pnc in sei anni (2021-26). E, a differenza delle risorse del Pnrr, non si tratta né di finanziamenti a “fondo perduto” né di prestiti a tassi agevolati come quelli europei, ma di indebitamento tutto nazionale e con gli attuali elevati tassi mercato. Il tema dei crediti d’imposta per l’edilizia è qui per restare. Anche dopo la sua fine. Gli effetti, come ha detto il ministro dell’Economia, ricadranno sul debito pubblico nei prossimi anni man mano che andranno in pagamento.

Ma il problema vero, come detto, riguarda il debito pubblico che vede scaricarsi addosso questa massa di centinaia di miliardi di crediti fiscali. Ogni anno, nel prossimo triennio, ci saranno da pagare attorno ai 40 miliardi di euro per i bonus edilizi passati, prima che il costo inizi a flettere (ma non a sparire). Questo implica che, secondo le previsioni contenute nel Def, il debito pubblico salirà al 137,8% nel 2024, al 138,9% nel 2025, al 139,8% nel 2026: 2,5 punti di pil in più rispetto al 137,3% del 2023.

Il dato, dopo la revisione dei conti dell’Istat a marzo che ha ridotto il debito di circa tre punti, è proiettato nel 2026 più o meno allo stesso livello che era stato previsto nella Nadef (136,6%). Ma il problema è che allora la traiettoria del debito pubblico italiano era discendente, mentre ora è ascendente. E bisogna considerare che in questo quadro sono esclusi circa 20 miliardi di misure in scadenza, di cui 15 miliardi solo di decontribuzione e taglio dell’Irap, che Giorgetti e il viceministro Maurizio Leo si sono impegnati a rinnovare: ciò vuol dire che il quadro reale di finanza pubblica è più deteriorato di quanto appare.

Non sarà affatto semplice per Giorgia Meloni e Giorgetti preparare la prossima legge di Bilancio. C’è infine un mistero. Il governo ha mantenuto per il 2024 il deficit inserito nella Nadef al 4,3% e ha lasciato invariato il deficit del 2023 al 7,2%, come certificato dall’Istat nella sua revisione a marzo. Ma nei numeri forniti da Giorgetti – bonus edilizi a quota 219 miliardi e Superbonus a quota 160 miliardi – sembrano esserci 15-20 miliardi di spesa in più rispetto ai dati di marzo dell’Istat. Solo che quest’extra spesa non pare inclusa né nel deficit del 2023 né nel deficit del 2024. Toccherà aspettare la pubblicazione integrale del Def per svelare l’arcano.