Tratto da “Il giusto errore. La scienza di fallire bene” (Egea), di Amy Edmondson, pp. 336, 34,90€
Fallire bene è difficile per tre motivi: avversione, confusione e paura. L’avversione ha a che fare con la nostra risposta emotiva istintiva al fallimento. La confusione emerge quando non abbiamo a disposizione un modello semplice e pratico con cui distinguere i vari tipi di fallimento. La paura insorge per effetto dello stigma sociale del fallimento. […]
Grandi e piccoli fallimenti
L’insuccesso non è mai divertente, e questo è particolarmente vero negli ospedali, dove si decidono la vita e la morte. Ma anche i nostri fallimenti ordinari (i nostri errori, le cose di poco conto in cui sbagliamo, le piccole sconfitte quando speravamo nella vittoria) possono essere sorprendentemente dolorosi e difficili da accettare. Inciampiamo sul marciapiede; un nostro commento in una riunione cade nel vuoto; siamo gli ultimi ad essere scelti per la partita di calcio improvvisata. Si tratta di piccoli fallimenti, certo, ma per molti di noi la ferita è reale.
Il male è più fiore del bene
Razionalmente sappiamo che il fallimento è una parte inevitabile della vita, sicuramente una fonte di apprendimento e persino una conditio sine qua non per crescere. Ma, come hanno dimostrato le ricerche nel campo della psicologia e delle neuroscienze, non sempre le nostre emozioni tengono il passo con la nostra lucida comprensione razionale. Numerosi studi dimostrano che elaboriamo in modo diverso le informazioni negative e quelle positive. Potremmo dire di essere affetti dalla «fallacia della negatività»: le informazioni «negative», tra cui i piccoli errori e fallimenti, vengono recepite prima di quelle «positive». Incontriamo maggiori difficoltà a lasciar andare i pensieri cattivi rispetto a quelli buoni. Ricordiamo le cose negative che ci accadono più vividamente e più a lungo di quelle positive. Prestiamo maggiore attenzione ai feedback negativi che a quelli positivi. Interpretiamo le espressioni facciali negative più velocemente di quelle positive. Il male, in parole povere, è più forte del bene. Questo non vuol dire che siamo d’accordo o che diamo maggior valore al lato negativo, ma solo che lo notiamo di più.
Perché siamo così sensibili alle informazioni negative e alle critiche?
A quanto pare, questa fallacia ha conferito un vantaggio evolutivo ai primi esseri umani, quando la minaccia di essere rifiutati dalla propria tribù poteva significare la morte. Ci è rimasta così una spiccata sensibilità alle minacce, persino a quella squisitamente relazionale di sfigurare agli occhi degli altri. Oggi molte delle minacce interpersonali che percepiamo nella nostra vita quotidiana non sono realmente dannose, e tuttavia siamo programmati per reagire, talvolta in modo eccessivo.
Cos’è l’avversione alla perdita
Soffriamo anche di quella che il celebre psicologo Daniel Kahneman ha definito «avversione alla perdita», ovvero la tendenza a sopravvalutare le perdite (di denaro, di beni o persino di status sociale) rispetto ai guadagni di pari entità. Ai partecipanti di uno studio è stata data una tazza di porcellana e successivamente la possibilità di venderla; per separarsi dalla tazza i partecipanti dovevano ricevere un compenso doppio rispetto alla somma che erano disposti a pagare per acquistarla. Irrazionale, proprio così. E profondamente umano. Non vogliamo perdere, non vogliamo fallire. Il dolore che il fallimento porta con sé, anche in attività basilari, è emotivamente più saliente del piacere di riuscire.
Fallimento e colpa sono legati
L’avversione al fallimento è reale. Razionalmente sappiamo che tutti commettono errori; sappiamo che viviamo in un mondo complesso in cui le cose possono andare male anche quando facciamo del nostro meglio; e sappiamo che dobbiamo perdonare noi stessi quando non riusciamo e fare altrettanto con gli altri. Ma il fallimento e la colpa sono inestricabilmente legati in gran parte delle famiglie, delle organizzazioni e delle culture.
I fallimenti vanno catalogati
Poiché i fallimenti sono più probabili nei contesti inediti che in quelli abituali, quando si verificano in contesti nuovi non dovremmo preoccuparcene, giusto? No. L’amigdala, quella piccola parte del nostro cervello responsabile dell’attivazione della reazione di «attacco o fuga», rileva una minaccia indipendentemente dal contesto. Questo è il motivo per cui la nostra reazione emotiva negativa ai fallimenti può essere sorprendentemente simile, indipendentemente dal grado di pericolo reale. Tuttavia, una semplice catalogazione dei vari tipi possibili di fallimento può aiutarci a fare attribuzioni sane, neutralizzando il sabotaggio dell’amigdala.
I contesti variabili aumentano le incertezze
Oltre ai contesti inediti e a quelli abituali, tutti noi ci ritroviamo spesso in contesti variabili, ovvero quelli in cui abbiamo le conoscenze per gestire una data situazione ma la vita ci gioca un tiro mancino. Per esempio, i medici e gli infermieri che lavorano nel pronto soccorso di un ospedale, per quanto esperti o navigati, possono imbattersi in pazienti che presentano un quadro di sintomi mai visto in precedenza, come nei primi giorni del Coronavirus. I piloti devono essere preparati a volare in condizioni meteorologiche impreviste. Nella vita di tutti i giorni ci troviamo in contesti in cui pur disponendo di vaste conoscenze pregresse dobbiamo comunque affrontare una significativa dose di incertezza. Gli insegnanti più esperti non possono sapere in anticipo quali sfide dovranno affrontare in una nuova classe. Quando cambiamo città o accettiamo un nuovo lavoro, non possiamo essere sicuri di come ci integreremo, anche se abbiamo parlato con le persone che vivono o lavorano lì cercando di apprendere il maggior numero di elementi possibili sulla loro cultura. Finché non giungiamo a destinazione, disponiamo di una previsione informata ma non di una garanzia su come sarà la nostra vita nel nuovo posto.
La paura di fare brutta figura è la paura del rifiuto sociale
All’avversione emotiva e alla confusione cognitiva si somma una paura radicata in ognuno di noi: quella di «fare brutta figura». Si tratta di qualcosa di più di una semplice preferenza. La paura indotta dal rischio di rifiuto sociale può essere ricondotta alla nostra storia evolutiva, quando il rifiuto poteva letteralmente fare la differenza tra il rimanere in vita e il morire di fame o di freddo. Il nostro cervello moderno non riesce a distinguere tra la paura del rifiuto irrazionale nella maggior parte dei contesti e le paure più razionali, come quella di un camion che sfreccia contromano.
[…] Quando si ha paura non si apprende compreso imparare dai fallimenti
In primo luogo, la paura inibisce l’apprendimento. La ricerca mostra che la paura consuma le risorse fisiologiche, sottraendole a quelle parti del cervello che gestiscono la memoria di lavoro ed elaborano le nuove informazioni. In una parola, l’apprendimento. Compreso l’imparare dal fallimento. Per le persone è difficile dare il meglio di sé quando hanno paura. Particolarmente difficile è imparare dal fallimento, perché si tratta di un compito cognitivamente impegnativo.
La paura ci impedisce di parlare dei nostri fallimenti
In secondo luogo, la paura impedisce di parlare dei nostri fallimenti. L’incessante lavoro di autopresentazione richiestoci dai tempi in cui viviamo ha esacerbato questa antica tendenza umana. La pressione ad apparire sempre vincenti ha raggiunto l’apice nell’era dei social media. Diversi studi hanno rilevato come i nostri adolescenti in particolare siano ossessionati dal proporre una versione candeggiata della loro vita, controllando senza sosta i «mi piace» e soffrendo emotivamente per i confronti e le offese, reali o percepite che siano.
Il rifiuto percepito e quello reale
La nostra reazione emotiva a un rifiuto percepito è la stessa che riserviamo a un rifiuto reale, perché è il modo in cui interpretiamo una data situazione a determinare la nostra risposta emotiva.
In sintesi si sommano e complicano più del dovuto il mettere in pratica la scienza del buon fallimento:
- la nostra avversione al fallimento,
- la confusione sui tipi di fallimento
- la paura del rifiuto sociale
La paura ci impedisce di parlare apertamente quando abbiamo bisogno di aiuto per evitare di commettere un errore o di instaurare un dialogo onesto per imparare da un esperimento fallito.
Mancando il vocabolario e la logica con cui distinguere tra fallimenti elementari, complessi e intelligenti, saremo più inclini a preservare la nostra avversione a tutti i tipi di fallimenti.