La fine di un inganno/Abolire il valore legale della laurea?

(2018) Ad intervalli irregolari, scanditi principalmente dalle esigenze della propaganda politica, si accende la discussione sull’abolizione del valore legale dei titoli di studio. L’ha proposta recentemente Salvini. Quanto al M5S, l’aveva già inserito nel programma del 2009. Le motivazioni espresse sono del tutto opposte.

Gli opposti schieramenti

Per Salvini è necessario spezzare un meccanismo di legalizzazione che favorisce le Scuole e le Università meridionali, grazie alla generosità nel fornire il massimo dei voti alla maturità e alle lauree, a scapito di quelle del Nord, più serie e più severe.

Per il M5S, si tratta di bypassare il giudizio della scuola e dell’Università ai fini dell’assunzione dei giovani da parte dello Stato. Infatti, a tutt’oggi il possesso di un titolo di studio con valore legale è la pre-condizione per poter partecipare ai concorsi statali. L’abolizione del valore legale era anche nel programma del centro-destra dal 1994, che però non ne ha mai fatto un punto di una convinta battaglia, a causa di dissidi interni. Ed era stata auspicata anche dal cosiddetto “Piano di rinascita democratica” della Loggia P2. Ma, ancor prima, da Sturzo e da Einaudi.

Invece, la sinistra antica e recente ha sempre difeso il valore legale del titolo di studio. La sua abolizione, sostengono, farebbe “esplodere” le diseguaglianze di prestazioni tra le Università; pertanto, favorirebbe quelle che hanno professori migliori e tasse più alte e rafforzerebbe le diseguaglianze socio-economiche. Di più: l’Amministrazione potrebbe cominciare a selezionare in modo clientelare, dando così peso diverso ai titoli di studio in base all’Istituto/Università di provenienza. Si teme anche che un’abolizione generalizzata del valore legale comporti una cessione di potere in materia di formazione da parte dello Stato non al mercato, ma alle corporazioni professionali.

Fin qui le due posizioni politico-culturali nette. Il tema del “valore legale” è stato oggetto di un’indagine conoscitiva della VII Commissione del Senato, conclusasi nel febbraio 2012, che non ha smosso le acque: la constatazione di una resistenza culturale e corporativa molto diffusa ha portato alla conclusione di lasciare le cose come stanno.

La questione giuridica e costituzionale

Dal punto di vista giuridico, il Regio Decreto 31 agosto 1933, n. 1592, stabilisce all’art. 167, che le Università e gli Istituti superiori conferiscono, in nome della Legge, le lauree e i diplomi determinati dall’ordinamento didattico. I titoli di studio hanno un valore esclusivamente di qualifiche accademiche (art. 172). L’abilitazione all’esercizio professionale è conferita a seguito di esami di Stato, cui, tuttavia, sono ammessi soltanto coloro che abbiano conseguito presso università i titoli accademici. L’art. 33, comma 5, della Costituzione ha confermato il Decreto: “E` prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”. Il candidato deve essere in possesso esattamente del titolo richiesto per il concorso. Perciò gli uffici pubblici e le professioni sono ordinati in modo che per accedere ai concorsi pubblici e agli esami di Stato è necessario avere un titolo di studio legale. Dunque, il valore legale non è in Costituzione direttamente, ci arriva per mezzo dell’esame di Stato.

Di fatto, l’evoluzione del mercato del lavoro ha ridotto, per quanto riguarda l’economia e le professioni non protette dallo Stato, il ruolo del valore legale dei titoli di studio, mentre è rimasto decisivo per l’accesso agli uffici pubblici e alle professioni regolamentate dallo Stato.

Secondo Sabino Cassese, il valore legale può servire, di fatto, all’Amministrazione statale, considerato che essa sembra sempre meno in grado di valutare la professionalità dei propri con corsisti e perciò si affida a Enti pubblici esterni quali le Scuole e le Università.

Perché è giusto abolire il valore legale del titolo di studio

Si deve forse chiarire preventivamente più precisamente che cosa significano le espressioni: “valore reale” e “valore legale” di un titolo di studio.

Il valore reale indica la corrispondenza tra la dotazione di conoscenze, abilità e competenze acquisite e le richieste del sistema economico, del sistema socio-culturale, del sistema amministrativo. Sistemi attraversati dalle dinamiche della globalizzazione e perciò sottoposti a mutamenti più o meno rapidi ed esigenti, che richiedono un adeguamento/aggiornamento in tempo reale della dotazione di competenze.

La misura del valore è fornita dai risultati in termini di sviluppo economico, sociale, civile e in termini di efficienza amministrativa.

Non è qui il luogo per dare un giudizio sul valore del patrimonio di conoscenze e competenze del sistema Paese. Si rimanda, al riguardo al recente Rapporto ISTAT sulla conoscenza del 2018 e al rapporto sull’analfabetismo funzionale degli Italiani. Ne risulta che il valore è decisamente basso. Se non bastassero i risultati visibili a occhio nudo, dei quali il PIL è la rappresentazione statistica più nota, ci si potrà sempre rivolgere alle valutazioni e comparazione degli organismi internazionali, in particolare al’ OCSE-PISA e similari.

Come si misura il valore della dotazione di conoscenze, abilità e competenze acquisite da parte dei singoli? Occorre un sistema nazionale omogeneo di certificazione sulla base di parametri socio-culturali condivisi. Fino a tutta l’epoca gentiliana del sistema scolastico e universitario esisteva. Saltati i parametri gentiliani, non ne sono stati ricostruiti di nuovi né, tampoco, sono stati condivisi. L’anarchia certificativa è diventata la regola. Ogni istituto scolastico e ogni Università applica criteri propri. L’effetto sono le straordinarie differenze di attribuzione dei voti di maturità e di laurea tra Nord, Centro, Sud. E’ rimasta solo l’omogeneità burocratico-formale del titolo legale. Il tentativo di introdurre sistemi di valutazione esterni per gli insegnanti, per i dirigenti scolastici, per i docenti universitari sono stati finora contrastati, respinti, dimezzati.

Il dato di fatto clamoroso è che l’equipollenza legale dei titoli di studio copre diseguaglianze estreme del valore reale.

Ora, trattare in modo eguale livelli di preparazione diseguali è somma ingiustizia. Ecco perché il valore legale del titolo di studio va abolito. La scuola e l’Università possono/debbono solo certificare l’itinerario di conoscenza/competenza effettivamente percorso dal singolo. A chi assume spetta il giudizio, in relazione al posto di lavoro che il singolo è chiamato ad occupare. Ciò tanto nel pubblico quanto nel privato.

L’abolizione del valore legale fa esplodere le diseguaglianze? No, semplicemente le rivela! La società, l’economia, le famiglie, i ragazzi hanno diritto di conoscere l’offerta formativa reale, non coperta dal pietoso velo burocratico del valore legale dei titoli. E’ la fine di un inganno.

L’abolizione del valore legale favorisce le scorciatoie dell’ignoranza, perché non obbliga più a diplomarsi o a laurearsi? Al contrario: mette chi cerca lavoro e chi lo offre di fronte alla dotazione reale di conoscenze/competenze. Può favorire forme di clientelismo, di reclutamento amicale? E’ possibile. Anzi accade già! L’antidoto consiste nel valutare sia il lavoro dell’assunto sia il lavoro di chi lo ha assunto. In economia, valuta il mercato. Nello Stato? Occorre procedere ad istituire parametri e procedure di valutazione severa. Qui si vede la forza o, meglio, la debolezza della politica nella difesa degli interessi dei cittadini.

Antonio Polito (2/5/19) Agli inizi degli anni Duemila, al culmine dei trionfi della new economy, quando sembrava che niente e nessuno sarebbe mai giunto a interrompere la fantastica cavalcata della crescita mondiale basata sulla information technology, un istituto di ricerca di Londra pubblicò una ricerca che fece sensazione. Diceva che nei vent’anni successivi i mestieri più richiesti sarebbero stati quello di parrucchiere, di gran lunga al primo posto, e di badante al secondo.

Il risultato

La previsione colpì per la semplice ragione che gli esperti e i media ripetevano invece tutti come un mantra che il mondo andava verso la «knowledge economy», l’economia della conoscenza, in cui solo chi avesse avuto un alto livello di educazione poteva sperare di diventare così flessibile da adattarsi ai cambiamenti continui indotti dall’innovazione nel mercato del lavoro.

I partiti di sinistra, tradizionalmente concentrati sull’obiettivo della uguaglianza di reddito, ci credettero così tanto che lo sostituirono con l’uguaglianza delle opportunità: il compito dello Stato doveva essere solo di offrire a tutti una educazione di alto livello, poi il mercato avrebbe scovato quelli bravi.

Come è noto, così non andò, e non solo per la recessione del 2008. Aveva ragione quella ricerca. I lavori più facili da trovare nei due decenni del Duemila sono stati del genere parrucchieri e badanti, cioè lavori che apparentemente non richiedono un alto grado di competenza e specializzazione. I lavori nuovi che sono stati creati, e che ci aspettavamo di vedere nei laboratori di ricerca, per camici bianchi, sono stati invece spesso su una bici a consegnare pizze. E se fare il parrucchiere è certamente una possibilità (anche se il mio barbiere dice che i nuovi arrivati sanno usare solo la macchinetta e non più le forbici), per fare il/la badante gli italiani sono fuori mercato, grazie alla vasta manodopera a basso costo disponibile tra i gruppi di immigrati.

L’errore di previsione

Ci eravamo dunque sbagliati? I laureati non trovano lavoro e dunque a che serve l’educazione?

Vi stupirà sapere che si tratta di domande vecchie come il cucco. Già negli anni ‘50, nelle sue «Prediche inutili», Luigi Einaudi, il grande economista liberale e secondo presidente della Repubblica italiana, rispondeva sul tema in questo modo: «Ho interrogato parecchi giovani americani sul problema della disoccupazione nel mondo universitario americano e vidi che la domanda non era neppure capita… i milioni di baccellieri e di masters, i quali escono dagli istituti universitari americani, sanno che il diploma non dà diritto a nulla… in me è sempre vivo il ricordo del 1926, quando, per invito di un noto economista, visitai un suo podere in uno stato del centro. Nella stalla, il vaccaro mungeva la mucca. Il collega, dopo averlo presentato, aggiunse: “Questi è un diplomato della mia università”. Come costui, nove decimi dei diplomati americani non sognano neppure di fare gli intellettuali solo perché hanno frequentato una Università e in essa si sono diplomati».

Domanda e offerta

Che cosa voleva dirci Einaudi? Che l’istruzione non serve a nulla? Nient’affatto. «Nessuno – scriveva – ha mai sostenuto la tesi che sia migliore una popolazione di analfabeti piuttosto che una popolazione di uomini e donne meglio istruiti».

Tra l’altro, c’è da chiedersi se l’America si sarebbe mai risollevata dalla Grande Crisi che tre anni dopo quella visita l’avrebbe sconvolta, se non avesse avuto laureati anche nelle stalle. Piuttosto Einaudi ci stava dicendo che il lavoro dipende dall’andamento e dai bisogni dell’economia. Per cui, per tornare al nostro esempio, in un’epoca in cui i servizi alla persona sono fortemente richiesti, anche a causa dell’invecchiamento della popolazione, parrucchieri e badanti trovano più facilmente lavoro. Di conseguenza anche l’atteggiamento mentale dei giovani e delle famiglie deve cambiare, perché l’istruzione è un formidabile arricchimento della persona e della società, ma la laurea non è un voucher per il lavoro. Che va trovato altrimenti.

La crisi dei laureati in Italia

Invece noi viviamo nel paradosso di essere uno dei paesi con il più basso numero di laureati tra le grandi economie europee ma con uno degli indici più alti di disoccupazione cosiddetta intellettuale, cioè di laureati e diplomati.

In compenso abbiamo un’economia basata sull’industria manifatturiera, in cui siamo ancora i secondi in Europa, ma nei nostri istituti tecnici specializzati (Its) studiano solo diecimila studenti, contro gli ottocentomila della Germania, nostra principale competitrice. Forse che quella istruzione non è istruzione? Nelle Berufsschulen tedesche si accede a un contratto di formazione in azienda prima ancora che si cominci la scuola, ma con l’accredito fornito dalla scuola. È una educazione che mette in relazione con il lavoro da subito. Ma allo stesso tempo non è un ghetto perché resta aperta per chi vuole la strada della università e del lavoro intellettuale.

La delusione di milioni di giovani cui in questi anni abbiamo promesso un buon lavoro in cambio di una laurea ha creato risentimento e rabbia, e gonfiato ovunque le vele dell’antipolitica e del populismo. Forse è arrivato il momento di fare i nostri figli un discorso di verità.

testo pubblicato il 02.05.2019 su corriere.it con il titolo “Giovani, laureati e disoccupati. La verità sul lavoro (che nessuno dice”)