Mirko Perri da Lamezia a istituzione del sound designer italiano

C’è anche il lametino Mirko Perri tra i premiati alla cerimonia dei David di Donatello 2024 e che ha visto, come miglior pellicola, “Io Capitano” del regista Matteo Garrone. Perri, infatti, è tra coloro che hanno lavorato al suono e ha ricevuto l’ambito premio insieme ai suoi colleghi. Mirko Perri dopo il diploma al liceo Galilei di Lamezia Terme conseguito nel ‘97, ha proseguito i suoi studi a Roma dove è decollata la sua carriera di sound design. Riporto qui una sua intervista del 2021 a Rolling Stone.

Mirko Perri rappresenta un’istituzione nel mondo del sonoro italiano attuale. Oltre al suo connubio artistico con Paolo Sorrentino iniziato da La grande bellezza, ha lavorato con molti registi capostipiti di un nuovo linguaggio cinematografico come Matteo Garrone e Matteo Rovere, con i quali ha vinto 3 David di Donatello nella categoria “miglior suono” con Veloce come il vento (2017), Dogman (2019) e Il primo re (2020).

Siamo andati a trovarlo nel suo studio InHouse a Roma per discutere con lui di come sta evolvendo la figura del sound designer in Italia e come nasce la narrazione sonora di È stata la mano di Dio, primo film di Paolo Sorrentino in cui la musica è quasi assente.

Negli anni hai lavorato con molti registi come Sorrentino e Garrone, ma anche Rovere e Mainetti, che stanno riportando in auge il cinema di genere. Come pensi sia cambiato l’apporto del sound designer nel cinema italiano?
C’è stata una presa di coscienza rispetto alle potenzialità insite nella professione. In passato i limiti tecnici ti obbligavano a determinati passaggi, oggi invece con la democratizzazione della tecnologia si riescono a fare in fase di montaggio dei passaggi fondamentali che prima venivano diluiti nel tempo, perdendo traccia di determinati e fondamentali elementi creativi. Inoltre è cambiato anche l’approccio alla scena. Nel momento in cui una produzione può permettersi di fare scene sempre più complicate che costano sempre meno, il lavoro aumenta ed il suono deve stare dietro a quel tipo di immagine, di estetica.

Secondo te questa evoluzione è attribuibile alla nuova leva registica oppure è lo specchio del mercato attuale?
Al di là del mercato che si è evoluto tantissimo con l’avvento dei nuovi player (Netflix, Amazon…), i nuovi autori vogliono cambiare le regole attuali. Se si può fare di più con meno possono entrare in gioco sempre personaggi nuovi. Prima, l’assetto di produzione era una macchina pesante dove si andava sul sicuro coinvolgendo sempre i soliti nomi. Per fortuna adesso c’è tutta una nuova generazione cresciuta con i kolossal americani, cresciuta con riferimenti pop di altra natura come il mondo del fumetto che ha portato a una nuova visione del cinema italiano. La cosa interessante è stata proprio quella di riuscire a spostare il focus della nostra cultura cinematografica, troppo spesso relegata a tematiche come la famiglia, le crisi di coppia, le crisi esistenziali, verso tematiche fantastiche e questo obbliga di conseguenza anche il reparto sonoro ad adattarsi a un’estetica visiva ben differente.

Come nasce il tuo rapporto artistico con Paolo Sorrentino?
Il primo film che ho fatto con Paolo è stato La grande bellezza. Lui tornava dall’esperienza all’estero con This Must Be the Place, dove aveva lavorato con una squadra londinese. Essendo La grande bellezza un film tipicamente italiano, voleva realizzarlo con un reparto sonoro italiano. Io l’ho conosciuto in moviola perché fui presentato da uno dei suoi collaboratori – l’assistente al montaggio – e mi fece proprio un provino. Mi diede una scena e mi disse: “Se la fai bene, fai il film”. Ed è così che è nato il nostro rapporto.

E di quale scena si trattava?
Era una sequenza di una grande festa in terrazza organizzata da Jep Gambardella dove una ragazza ballava davanti a un ventilatore.

Sorrentino ha da sempre legato la sua narrazione a scelte musicali iconiche e fuori dagli schemi, non ultima il tema iniziale di The New Pope (Good Time Girl dei Sofi Tukker feat. Charlie Barker). In che modo convivono all’interno della colonna sonora la tua visione sonora con la sua anima da music supervisor così importante?
Con Paolo si fa un lavoro molto particolare. Innanzitutto le musiche spesso e volentieri sono già citate in sceneggiatura e seguono lo sviluppo narrativo del film. Successivamente si va in tandem con lui e il suo montatore Cristiano Travaglioli, nel senso che mentre loro stanno montando la scena mi inviano già un rough cut (prima bozza di montaggio, nda) della sequenza da sonorizzare in modo da poter bilanciare musica e suono. In post produzione diventa poi fondamentale rimanere in tonalità con la musica per rispettare una cifra fondamentale e caratterizzante della cinematografica di Sorrentino.

In È stata la mano di Dio la musica lascia spazio al silenzio primordiale di morte e formazione artistica. In che modo hai approcciato al film che presenta delle differenze musicali sostanziali rispetto ai precedenti?
È stata la mano di Dio è un film talmente personale ed intimo che credo che averlo asciugato dal punto di vista musicale sia stato un dovere rispetto alla storia che tratta. Quando mi hanno comunicato che non ci sarebbe stata musica mi è preso un colpo (ride) e dal punto di vista narrativo non sapevo cosa aspettarmi. Lo sforzo è stato proprio quello di cercare di ricostruire la sua memoria sonora. La casa in cui abitava ed il modo in cui questa suonava, la Napoli confusionaria degli anni ’80. Il filtro dei ricordi che agisce sulla costruzione sonora. Lavorare in sottrazione è stato fondamentale per ricreare quell’immaginario così specifico.

La presenza, che può sembrare a volte ingombrante, e l’assenza nel momento del lutto della famiglia di Fabietto mi hanno fatto pensare alla ciclicità sonora che si evidenzia nel film La famiglia di Ettore Scola e negli elementi affettivi che compongono la casa dove si concentra la narrazione. Come hai raccontato questa parte fondamentale attribuibile anche all’immaginario malinconico nei film di Sorrentino?
Il film si potrebbe suddividere quasi in due sezioni: da un lato la felicità, il caos di una famiglia super esplosiva, come si vede nella sequenza del pranzo in campagna dove c’è un continuo, quasi assordante, di voci, e la seconda parte dove c’è un’assenza totale di ogni sensazione sonora. Quindi il lavoro principale è stato quello di giocare tra un’assenza di suono, quasi tendendo al minimalismo, rispetto alla prima parte molto più densa. Non a caso nei titoli di coda c’è lo Stromboli che accompagna il finale fino ad asciugare il suono totalmente.

Gli elementi all’interno della casa ti sono serviti nel ricreare queste sensazioni?
In realtà abbiamo lavorato più sull’esterno, quindi cercando di ricreare quelle ambientazioni sonore che ricordava Paolo. C’è stata una ricerca specifica rispetto a quello che lui ascoltava. La sensazione di malinconia legata ai ricordi nasce proprio dalla fusione del ritmo della scena con determinate sonorità degli spazi ambientali che compongono quelle sensazioni emotive, che non sono dirette come potrebbe essere la musica ma sono molto più sottili e personali.

Come hai sfruttato la cuffia di Fabietto nella creazione sonora narrativa?
La cuffia era già un elemento presente in sceneggiatura, e il non sentire mai quello che Fabietto ascolta è una delle chiavi di lettura per comprendere il motivo per cui manca la musica nel film. La musica rimane confinata nella testa del protagonista proprio per non “inquinare” la sua realtà sonora e solo nel finale, in cui per la prima volta la ascoltiamo, rende il tutto emotivamente molto forte. È molto interessante quando si trova da solo sullo Stromboli e mettendosi le cuffie si asciuga tutto e sentiamo solo il tremore della terra come se fosse una sensazione corporea, e parte il ricordo degli istanti felici con i genitori. Quasi come a ricreare un contatto fisico tra Fabietto e la sua famiglia.

Possiamo dire che la cuffia rappresenta la linea narrativa principale del film?
Direi di sì, anche per il suo valore autobiografico. Probabilmente Paolo a quell’età era un divoratore di musica non indifferente e, se volessimo dare una lettura di questo tipo, l’assenza di suono è perché probabilmente il tutto rimane confinato unicamente al suo interno.

Come hai raccontato la figura di Maradona da un punto di vista sonoro?
Maradona è un personaggio centrale.

Divino?
Sì, esatto: una figura divina fuori dalla logica. Una scelta interessante suggerita da Paolo è nata proprio da un suo ricordo preciso durante la sequenza in cui i due fratelli Fabietto e Marchino assistono all’allenamento di Maradona che si esercita nel calciare le punizioni. Il suono che produce l’impatto con il pallone che prosegue verso la rete è sempre lo stesso. Per Sorrentino, Maradona è una specie di macchina perfetta quindi il movimento che esegue nel calciare produce sempre lo stesso suono. Se tu vai a riascoltare, è sempre lo stesso identico suono a ogni calcio per rimarcare la precisione nel tiro. Questa ripetitività inoltre aggiunge anche un elemento musicale e ritmico alla scena. Questo è uno degli esempi di come abbiamo voluto raccontare Maradona.

Il film unisce il sacro con l’elemento profano, che da sempre contraddistingue la narrazione legata alla città di Napoli. Come hai sfruttato questo ambiente sonoro così ricco di elementi e contraddizioni?
Abbiamo registrato alcune situazioni ambientali a Napoli, ma sono servite relativamente, c’è stata più una costruzione sonora puntuale. Questo perché la Napoli di oggi a livello di panorama sonoro è ben differente dal quella dagli anni ’80. Al di là di alcuni elementi, come le voci nei mercati che rimangono impresse nel tempo, abbiamo ricostruito punto per punto quello spazio sonoro utilizzando i veicoli d’epoca inseriti sullo sfondo per farli diventare un’ambientazione che ricostruisse quel dato periodo storico.

Qual è la linea narrativa sonora che rappresenta al meglio un coming of age secondo te?
L’approccio deve essere quello di rispettare la memoria di chi lo scrive. È fondamentale far passare attraverso il suono la memoria uditiva che tutti noi abbiamo e l’importanza che questa ha sulla nostra formazione. La ricerca sonora deve essere improntata su elementi specifici che risiedono nella testa dell’autore, cercare di interpretarle nella maniera più dettagliata possibile. Questo film mi ha insegnato proprio questo.

Stiamo andando verso un sound design sempre più silente dove l’assenza di suono può in realtà innalzare le capacità immaginifiche degli spettatori, portandoli a creare nella propria mente un suono ideale?
Facciamo un ragionamento storico partendo, ad esempio, dalla musica. Se prima la musica nel cinema aveva bisogno dei grandi temi per sorreggere le immagini che tante volte negli effetti visivi sembravano un po’ naïf, aveva un senso realizzare delle grandi melodie. Ma oggi, se pensi già a Dune di Villeneuve, che è un film di fantascienza quasi intimista e tende alla verosimiglianza d’immagine verso un ipotetica realtà, il ragionamento è lo stesso di Sorrentino. Bisognerebbe tendere a non esagerare con le sensazioni sonore perché l’impatto visivo se ben congegnato da un accompagnamento sonoro coerente è già di suo sufficiente. Non c’è più il bisogno di sovraccaricare una sequenza anche se legata a un immaginario fantascientifico per renderla convincente, basta essere “para-realistici” anche con il suono. Quindi secondo me la tendenza verso un sound design silente è data dal fatto che le immagini sono sempre più realistiche e si tende di conseguenza a diminuire l’impatto sonoro verso un nuovo impatto sensoriale a 360°. Se pensi ad esempio al tema di Superman composto da John Williams ti sembra di vederlo volare nell’aria, oppure gli stessi personaggi di Star Wars accompagnati dal loro tema ti sembrano maestosi. Se invece levi quel tema e li guardi oggi perdono un po’ quell’immagine e ti sembrano quasi dei cosplayer.

Secondo te anche in Italia stiamo andando incontro a questa nuova visione sonora oppure è una bella anomalia nel nuovo film di Paolo Sorrentino?
Sicuramente c’è questa nuova tendenza anche in Italia che secondo me è innata, un’evoluzione naturale delle cose. Nonostante in Italia a livello sonoro siamo ancora legati al cinema americano degli anni ’80/’90 e c’è la tendenza a sovraccaricare le sequenze perché ancorati a quell’immaginario, io questa nuova via la vedo. Pensa a Dogman, che è uscito nel 2018. Abbiamo lavorato solamente sugli ambienti e di fatto non c’è musica nel film, tranne due pad, il resto è raccontato unicamente attraverso il suono. Secondo me si andrà sempre di più verso questa tendenza, al di là delle storie molto personali, come può essere È stata la mano di Dio. Mano a mano che si raffinerà l’immagine vedrai che piano piano ci chiederanno la nota singola di Zimmer (ride).

Si va verso un sound design iperrealistico?
Io su questo sono abbastanza convinto, è una bandiera che porto avanti da sempre. È importante cercare di partire sempre da una registrazione naturale anche se stai lavorando a cose particolarmente elaborate dal punto di vista visivo e renderla iperrealistica mantenendo una verosimiglianza con la realtà, per evitare di fare film come i grandi blockbuster americani che suonano tutti come fossero un trailer.